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7 canzoni dei Beatles da riscoprire

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La produzione beatlesiana annovera al suo interno anche un certo numero di gemme – che non potremmo mai definire “nascoste”, tutt’al più “meno in vista” – che forse dovremmo rispolverare e risentire più spesso, esattamente come facciamo con Love Me Do, Here Comes The Sun o A Little Help From My Friends (o qualunque altro dei loro successi più noti, l’offerta è sterminata: scegliamo a piacere).

Come tutti sanno, i quattro di Liverpool hanno operato nel corso dei gloriosi anni 60, probabilmente il più irripetibile periodo della storia del mondo per quanto riguarda la musica rock: alfieri della ricerca sonora, i Beatles ci hanno offerto grandi brani lungo tutto l’arco della loro carriera e così anche la nostra selezione di Sette canzoni da riscoprire pesca qua e là dal loro repertorio, cercando anzi di scegliere brani sia dal periodo iniziale, sia da quello di massimo splendore compositivo, sia da quello finale, in cui volavano gli stracci ma la musica non voleva comunque saperne di uscire male. 

Ciò posto, cominciamo questa hit parade sgangherata ma – si spera – non troppo scontata.

1. Please Mr. Postman

Classica cover riempitiva contenuta in With The Beatles, secondo album di studio del gruppo realizzato a pochissima distanza – soprattutto per gli standard odierni – da Please Please Me: la beatlemania era già abbondantemente cominciata e, come si dice anche in UK, bisognava “nutrire la bestia” sicché la pur già prolifica ditta Lennon/McCartney aveva bisogno di un piccolo aiuto esterno per raggiungere il numero prestabilito di tracce (l’album conta infatti otto composizioni originali e sei cover). Il brano restituisce perfettamente ancora oggi tutta la freschezza tipicamente anni 60 dei primi lavori dei Fab Four, è una cover realizzata in maniera deliziosamente accattivante e aggiunge una tridimensionalità inedita al pur gradevole pezzo originale delle Marvelettes grazie all’arrangiamento tipicamente beat, semplice ma irresistibile. Lennon certamente ci mette del suo sguaiando l’interpretazione vocale man mano che la canzone procede, un po’ come capita in Twist and Shout senza però arrivare al totale raschiamento delle corde vocali come capitava nel leggendario pezzo (anch’esso una cover) che chiudeva Please Please Me.

2. Happiness Is a Warm Gun

Andiamo avanti veloce e infiliamoci nella fase matura della band, tra Rubber Soul e l’album bianco che, appunto, custodisce tra le altre anche questa mini-suite lennoniana, pubblicata nel 1968. Sul testo del pezzo s’è detto di tutto e di più, dall’interpretazione legata al rapporto tra John e Yoko fino a quella collegata alla tossicodipendenza: quel che è forse più interessante è la tripartizione del brano, che contiene al suo interno – nonostante duri appena 160 secondi – tre diverse melodie che potrebbero benissimo essere la base per tre canzoni diverse. Lennon, invece, le ha messe insieme e il risultato finale tiene perfettamente, come se fossero tre movimenti distinti all’interno di una stessa aria musicale. Se Please Mr. Postman è un perfetto Bignami su cosa fosse la musica pop di inizio anni 60, Happiness Is a Warm Gun lo è altrettanto se si parla invece della fine del decennio.

3. You've Got to Hide Your Love Away

Al di là della curiosità per cui You’ve Got to Hide Your Love Away è l’ultima canzone dei Beatles se si mette in ordine alfabetico l’elenco completo dei loro brani, il pezzo è estremamente noto grazie anche al fatto che viene suonato all’interno di Help!, sia inteso come album (1965), sia inteso – soprattutto – come film. È una ballad piuttosto agrodolce e rappresenta una delle varie tappe del filone dylaniano di John Lennon.  Nonostante l’arrangiamento finale arricchisca la canzone con diversi altri strumenti, l’essenza voce e chitarra del pezzo rimane inalterata, all’ascolto; l’aggiunta dell’assolo di flauto, però, aggiunge un tratto ulteriormente onirico al brano, che conserva un’atmosfera sognante che contrasta molto efficacemente con l’Hey! che invece apre il ritornello.

4. Helter Skelter

Scritta da Paul McCartney nel 1968 e anch’essa contenuta nell’album bianco, Helter Skelter è tristemente famosa a causa del fatto che il noto killer Charles Manson l’ha citata più volte tra le sue “influenze”, per così dire. In realtà, sarebbe anche ora di liberare il brano da questa pesantissima – e immeritata – associazione sinistra e riscoprirlo come l’esperimento di hard rock più convinto dell’intera storia beatlesiana. Del resto, si parla pur sempre di un brano del 1968, anno in cui esce Electric Ladyland di Jimi Hendrix, i Cream vanno per la maggiore, si formano i Led Zeppelin e iniziano a comporre il loro primo album, gli Who si chiudono in studio per incidere Tommy e gira tra diversi pub di scarsa fama il primo demo di un gruppo ancora sconosciuto che di lì a poco si sarebbe ribattezzato Black Sabbath. Insomma, il rock inizia a picchiare giù durissimo e i Beatles vogliono dimostrare di poter essere della partita, se vogliono: Helter Skelter è la (divertita) testimonianza del fatto che i magnifici quattro avrebbero potuto regalarci anche un disco hard, se ne avessero avuto voglia.

5. Taxman

Canzone scritta nel 1966 per l’album Revolver, Taxman apre il disco ed è opera di George Harrison, il chitarrista più virtuoso del gruppo ma anche un autore di notevole talento. Si tratta comunque di una canzone che riprende alcuni canoni della musica ye-ye – come, per esempio, i coretti e la sezione ritmica – ma l’enfasi che dà la produzione finale è tutta sui suoni prodotti dagli strumenti a corde, con un riff di basso estremamente azzeccato e gli accordi semi-dissonanti di Harrison che formano un duetto molto accattivante. Il testo, invece, potremmo definirlo come “satira politica”: è di fatto una presa in giro della politica del governo Wilson sulla tassazione dei guadagni dei musicisti, sui quali pendeva un’aliquota spaventosa del 95%. Tra l’altro, un testo così eversivo e apertamente irrispettoso del governo britannico rappresenta un unicum nella storia beatlesiana.

6. Don’t Let Me Down

Blues struggente e doloroso composto da John Lennon, che nella parte conclusiva della storia beatlesiana ha riscoperto con forza le sue radici blues e rock’n’roll venendo gradualmente sempre meno influenzato dalle ballad voce e chitarra in stile Bob Dylan. Il pezzo nasce durante le sessioni di Get Back e Don’t Let Me Down è uno dei brani che i Fab Four hanno suonato durante il loro rooftop concert. Osservando il video che ci è rimasto dell’esibizione, il continuo gioco di sguardi che John e Paul si dedicano durante la jam session all’aria aperta apre orizzonti interpretativi del testo diversi rispetto all’ovvia dedica lennoniana a Yoko Ono, sua musa ispiratrice dell’epoca. Volendo, si può benissimo leggere il testo anche in ottica amicale, con McCartney al posto di Yoko.

7. Tomorrow Never Knows

Ancora Revolver, ancora John Lennon: se però la Taxman di Harrison è una sorta di ripresa del genere che con cui i Beatles hanno rotto il ghiaccio e sedotto il mondo (genere di cui peraltro erano consumatissimi maestri senza nemmeno sforzarsi), Tomorrow Never Knows è invece uno dei brani più sperimentali che si possano trovare nell’intera produzione dei magnifici quattro di Liverpool. Ispirato a John dalla lettura di L'esperienza psichedelica – Manuale basato sul libro tibetano dei morti di Timothy Leary, uno dei testi fondanti del movimento psichedelico americano. Ma, tutto sommato, il testo non è nemmeno l’aspetto più strano del componimento: Tomorrow Never Knows si è meritata le sue due righe in tutti i manuali di storia della musica perché è una composizione estremamente sperimentale, specie se consideriamo che è pubblicata all’interno di un contesto pop – e non c’era contesto più pop, all’epoca, di un album dei Beatles. La stratificazione sonora è incredibile, il vortice ritmico trascinante e la voce di Lennon risuona distante, altra e aliena proprio come John aveva chiesto a George Martin, abituale produttore dei Fab Four e loro complice prediletto nella manipolazione dei suoni. Al di là dell’importanza per gli almanacchi, comunque, Tomorrow Never Knows è ancora oggi una grande canzone, un brano che emana un fascino tutto particolare, dissonante e stranissimo persino vent’anni dopo il 2000. È una sorta di smentita immediata e definitiva per chi tende a denigrare l’importanza dei Beatles rinchiudendoli all’interno di un quadrato immaginario formato dai successi dei loro primissimi anni di attività.
Chi immagina di conoscere la discografia dei quattro di Liverpool ma in realtà ne ignora la reale profondità, del resto, di fronte a questo pezzo reagisce sempre nello stesso modo: «Ma è davvero dei Beatles questa canzone?».

Autore: Giorgio Crico

Milanese doc, sposato con Alice, giornalista ma non del tutto per colpa sua. Appassionato di musica e abile scordatore di bassi e chitarre. ascolta e viene incuriosito da tutto nonostante un passato da integralista del rock più ruvido.

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