Breviario minimo di musica pop rock islandese
L’Islanda è un paese che ama i contrasti: gelido la maggior parte dell’anno ma nato da magma incandescente; dal punto di vista tettonico per metà americano e per metà europeo (sorge lungo la dorsale atlantica a cavallo della placca nordamericana e di quella euroasiatica); un paese in cui il recente boom di turisti rappresenta un serio problema logistico e ambientale (nel 2016 i visitatori sono stati circa 1,8 milioni, quasi sei volte il numero degli abitanti).
Reykjavík è una capitale piccola ma aperta, moderna e di respiro europeo, che combatte il suo isolamento con un’offerta culturale davvero lungimirante. La sua scena musicale, in particolar modo negli ultimi anni, è resa assai vivace da festival importanti come il Sónar Reykjavík e l’Iceland Airwaves, oltre che dai numerosi locali di musica dal vivo presenti in città.
Soprattutto, per essere un’isola remota e con una popolazione pari a quella della provincia di Lecco, da alcuni decenni l’Islanda non fa che sfornare eccellenze musicali di rilievo internazionale e persino mondiale.
Ásgeir
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Il 25enne Ásgeir Trausti Einarsson, meglio noto col solo nome di battesimo Ásgeir, è senz’altro uno dei più interessanti artisti sfornati dall’Islanda negli ultimi anni.
È cantante, songwriter, pianista e chitarrista: un musicista completo. Ásgeir esordì nel 2012 in patria con l’album – buona fortuna con la pronuncia – Dýrð í dauðaþögn, diventato in breve tempo il disco di debutto più venduto di tutti i tempi in Islanda, con un discreto successo anche in Danimarca. Viste le premesse incoraggianti, nel 2013 venne pubblicata una versione in inglese dell’album – dal meno ostico titolo In The Silence – in collaborazione con il cantante americano John Grant, che si piazzò molto bene nelle classifiche di Australia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi e Francia. La strada per il successo internazionale era spianata.
Al di là delle molte etichette (indie folk, folktronica et similia), quello di Ásgeir è un cantautorato moderno, introspettivo quanto basta, che non disdegna incursioni nell’elettronica. Siamo dalle parti di Bon Iver, per intenderci, punto di riferimento molto evidente anche nell’utilizzo della voce. Un giovane talento da tenere d’occhio.
Ascolto consigliato: Afterglow (2017)
Of Monsters and Men
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Nel bene e nel male, in Italia devono la loro fama soprattutto alla pubblicità: nel 2012 uno spot della Vodafone fece della loro Little Talks mezzo tormentone estivo. In realtà gli Of Monsters And Men sono molto di più di una meteora della discografia.
Come nel caso di Ásgeir, il successo in patria è stato il trampolino di lancio per il salto internazionale. Nel giro di sei mesi dalla release islandese di My Head Is An Animal, la band aveva messo a segno un contratto con la Universal e una riedizione americana dello stesso album. Seguì Beneath The Skin del 2014, disco dimostratosi capace di reggere l’ingombrante successo dell’esordio, e dal profilo Instagram risulta che il gruppo sia al lavoro sul terzo album.
Gli Of Monsters And Men fanno un rock gentile con spolverate di folk, che se non fosse per il contratto con una major potremmo definire indie. Particolarità del gruppo è l’alternanza fra voce femminile (Nanna Bryndís Hilmarsdóttir) e voce maschile (Ragnar Þórhallsson), che dà a molti pezzi la parvenza di un intimo dialogo fra innamorati.
Ascolto consigliato: My Head Is An Animal (2011)
Björk
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Non potevamo parlare di artisti islandesi senza menzionare la più celebre e geniale: Björk Guðmundsdóttir, per tutti semplicemente Björk.
È impossibile inquadrare in una formula preconcetta la sua musica: Björk è pop e jazz, rock ed elettronica, revival e sperimentalismo, voce e immagine. La sua idea di spettacolo è quella di un’opera totale che abbraccia musica, arti visive, performance art, moda, con un’interprete misteriosa e camaleontica che tiene tutto insieme.
Si potrebbe pensare all’arte di Björk come al prodotto di una lucida follia. In realtà la sua storia musicale comincia con studi di tipo tradizionale (pianoforte classico, flauto) e con una lunga gavetta a partire dai primi anni ’80 fra band punk rock, jazz fusion, goth rock e un gruppo di successo come gli Sugarcubes (per una panoramica completa rimandiamo alla pagina Wikipedia). Il suo ultimo lavoro in studio è Vulnicura del 2015.
Ascolto consigliato: Debut (1993)
Sigur Rós
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C’è stato un periodo – assai breve, a dire la verità – all’inizio degli anni ’00 in cui sembrava che il post rock si affacciasse al successo di massa uscendo dalla sua nicchia di indie romantici. I Sigur Rós (letteralmente "Rosa della Vittoria", dal nome della sorellina del cantante Jónsi Birgisson), forti anche della presenza in colonne sonore di film del calibro di Vanilla Sky, avevano guadagnato un’enorme notorietà rispetto a gruppi coevi e stilisticamente affini come Mogwai, Explosions In The Sky e Tortoise.
Quel successo non si è rivelato sostenibile nel lungo periodo e oggi la band è seguita quasi solo dagli amanti del rock alternativo, oltre che dai vecchi fan. In ogni caso si tratta di un gruppo che merita una scoperta, o una riscoperta, anche da parte di chi è orientato verso generi musicali diversi.
Il loro rock è davvero accessibile a tutti: riflessivo, disteso, minimalista, ora cupo, ora serafico, ognuno lo può colmare con i propri significati e le proprie emozioni. Ciò è particolarmente vero nel caso di quei brani cantati in vonlenska (o hopelandic, letteralmente "speranzese"), l’idioma fittizio inventato da Jónsi e basato su sillabe e fonemi privi di significato, una specie di linguaggio infantile universale.
Ascolto consigliato: ( ) (2002)
GusGus
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Tuffiamoci adesso in un fiume di elettronica vecchia scuola, bella ruvida e discotecara come andava di moda alla metà degli anni ’90, periodo in cui i Chemical Brothers facevano il botto e i GusGus esordivano sulla scena musicale.
Il gruppo, in attività da oltre vent’anni, nasceva come una sorta di collettivo artistico dedicato a vari progetti, non solo musicali. Nel corso della loro carriera hanno visto numerosi cambi di line up. Attualmente la formazione è costituita dai soli Birgir Þórarinsson e Daníel Ágúst Haraldsson, due dei fondatori.
Più che Reykjavík, Londra; più che gli arrangiamenti minimalisti, l’acidità dei sintetizzatori e la potenza dei colpi di grancassa: i GusGus rappresentano anche una variante dello spirito islandese molto differente da quella a cui siamo più abituati.
Ascolto consigliato: Polydistortion (1997)
mùm
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Potremmo accomunarli per alcuni versi ai Sigur Rós, soprattutto per il tipo di arrangiamenti e le parti vocali, ma ciò che distingue i múm (il nome non ha un significato preciso: rappresenterebbe due elefanti che si tengono per la proboscide) è il deciso utilizzo di strumenti acustici e tradizionali (violino, violoncello, percussioni e così via) spesso associati a basi elettroniche.
La componente folk, quindi, è inserita in un contesto post rock che abbraccia volentieri l’elettronica. Il risultato è una specie di dream pop rivisitato. Atmosfere perfette per distendere i nervi al riparo dal logorio quotidiano.
Ascolto consigliato: Finally We Are No One (2002)