Katy Perry Story: una carriera lunga vent'anni in cinque canzoni
Katy Perry sta per compiere quarant’anni e, come (auto)regalo di compleanno anticipato, si è prodotta in un ritorno sulle scene in grande stile per ricordare a tutti, casomai ce ne fosse bisogno, che lei è una delle regine degli ultimi quindici anni di pop e, conseguentemente, non ha la minima intenzione di abbandonare facilmente il suo trono. È insomma appena uscito il suo settimo album di inediti: 143 è la sesta fatica discografica in sedici anni, considerando solo quelle pubblicate con l’attuale nome d’arte (il lontanissimo esordio del 2001, Katy Hudson, intitolato con il suo vero nome, fa ampiamente storia a sé) e arriva a quattro anni di distanza quasi esatti dal disco precedente, il non proprio indimenticato Smile.
Con 143 la Perry vuole riprendersi tutto, a cominciare da quello scintillio da classifica che, negli ultimi dieci anni, ha trovato solo con Never Really Over, nell’ormai lontano 2019 (unico singolo rimasto un po’ meno anonimo tratto dal già citato Smile) e, se possibile, tornare ai fasti del periodo 2008-2014, in cui “nuovo singolo di Katy Perry” significava immediatamente radio prese d’assalto, milioni di visualizzazioni su YouTube e cascate di download (legai e non). Del resto, nel corso della prima parte della sua carriera, la giunonica Katy non ha quasi sbagliato un colpo: basta ripercorrere la sua storia in musica per capirlo… dunque, immergiamoci!
I Kissed A Girl (2008, One Of The Boys)
Il singolo da cui è partito (quasi) tutto: dopo aver attirato l’attenzione su internet nel 2007 con il brano Ur So Gay – poco più di un divertissement dalla produzione minimale con un testo divertente e provocatorio che prende di mira uno stereotipo allora molto in voga – I Kissed A Girl è l’ingresso in scena trionfale di Katy Perry. Si tratta di un ballabile elettropop con una produzione esagerata e sopra le righe dal vago retrogusto glam pensato per essere una bomba inarrestabile nelle discoteche frequentate dai ragazzini e alle feste dei liceali. Il testo ammiccante e, ancora una volta, più o meno provocatorio completa l’opera: è una hit mondiale, disimpegnata e divertente con i suoni più à la page del periodo (non a caso, saranno la spina dorsale dell’album di debutto di Lady Gaga l’anno successivo, The Fame). In estrema sintesi, con I Kissed A Girl è nata una star.
Firework (2010, Teenage Dream)
Il lustro 2008-2013 è il periodo di massimo splendore della Perry e il secondo album dell’artista, Teenage Dream, è un centro perfetto che non solo supera il successo del predecessore ma riesce anche a migliorarne nettamente l’esito artistico. Le canzoni sono più mature, meglio confezionate e non si limitano più a seguire i trend ma sono anche in grado di imporli. Come esempio di tutto questo, Firework è perfetta: non è un brano rivoluzionario o innovativo ma una canzone pop che cela al suo interno la forza di trasformarsi in un inno motivazionale (ancora oggi è usatissima nei montaggi televisivi e non solo, per dire). La produzione è il solito “fritto misto” di suoni di diversa estrazione – incluso l’inevitabile tunz-tunz danzereccio che a un tratto si impadronisce del pezzo – ma è fatto con gusto, tanto da non invecchiare. Una canzone pop calibrata al millimetro, orecchiabile, accessibile, cantabile da chiunque in qualunque momento. Un centro perfetto.
Dark Horse (2013, Prism)
Spesso si dice che la terza volta è “quella buona” e nel caso di Katy Perry lo è stata senz’altro perché Prism, il suo terzo album, riesce a replicare il successo di Teenage Dream e l’impresa era decisamente complicata. Dark Horse, terzo estratto dal disco, è un singolo anomalo che prosegue nel solco tracciato da E.T., brano decisamente più peculiare dell’album precedente che, pure, è stato audacemente scelto come singolo, e riesce a conciliare una certa orecchiabilità con una ricercatezza melodica e produttiva che nel pop da classifica non è proprio cosa di tutti i giorni. La parte più convenzionale del brano è il pre-ritornello mentre le strofe suonano in qualche modo aliene e dissonanti, rispetto al resto dell’offerta musicale mainstream del tempo, così come il ritornello vero e proprio. L’incorporazione di una sezione ritmica già molto figlia della trap dà l’idea di quanto il team creativo della Perry fosse sul pezzo, a quei tempi. Una menzione particolare la merita il videoclip che è una specie di trip acido a tema Antico Egitto che ancora oggi, con la sua pacchianissima luminosità, dà la sensazione di uno stranissimo kolossal da neanche quattro minuti.
Chained to the Rythm (2017, Witness)
Sebbene sia probabilmente l’ultma grande hit internazionale della cantante, Chained to the Rhythm segna l’inizio della fase discendente di Katy Perry. Il brano sembra la classica reinterpretazione in chiave contemporanea di alcuni cliché musicali un po’ disco classica anni 70, un po’ Daft Punk riletti e riproposti per un pubblico più ampio e di bocca buona tutti rimescolati e riproposti in salsa super pop e super catchy. Di fatto, è un brano che suona molto più banale e insignificante di tanti altri pezzi della Perry che, pure, oggi, risultano più datati e figli del loro tempo.
Never Really Over (2019, Smile)
Sebbene Smile non sia andato malissimo come album, non è stato in grado di sfoderare una vera hit da classifica/tormentone come tutti gli altri dischi della Perry (Chained to the Rhythm e Swish Swish, per quanto meno forti di altri brani del passato, hanno avuto discreta risonanza e, nel primo caso, anche un buon successo commerciale). Ciò che si avvicina di più al concetto di hit è Never Really Over, brano uscito a fine maggio 2019 che ha anticipato il disco di diversi mesi – e che rappresenta, a oggi, l’ultimo singolo notevole dell’interprete classe 1984. Riascoltandolo oggi, emerge come pezzo significativo all’interno del panorama più ampio della carriera discografica della Perry in quanto rappresenta una specie di “chiusura del cerchio” sonora rispetto a Firework di quasi dieci anni prima: anche qui siamo di fronte a un pastiche produttivo con un ritmo cadenzato che mira a dare la sensazione dell’inno collettivo pur avendo un testo molto più “personale”. Strofe e ritornello, però, riprendono i sottintesi ironici e, volendo, anche auto-parodistici che hanno sempre contraddistinto l’immaginario di Katy Perry, sempre molto attenta a non prendersi mai troppo sul serio.