Pubblicità sui siti pirata: un giro da 227 milioni di dollari l'anno
La pubblicità è la principale fonte di introito per chi gestisce questi siti, che sono dannosi per più motivi: sottraggono royalties a chi si affida a internet per vendere le proprie creazioni; rovinano la reputazione dei grandi brand che si trovano, spesso involontariamente, associati all'attività di violazione del copyright; forniscono finanziamento per altre attività illecite.
La diffusione ad-supported di contenuti protetti è diventata nel tempo un business che danneggia una vasta gamma di soggetti dell'economia digitale e minaccia lo sviluppo di un web libero e aperto. Dal momento che il numero di utenti di internet è in costante crescita, specie nei paesi in via di sviluppo, il fenomeno è lontano dall'essere stroncato. In ogni caso i profitti guadagnati da chi gestisce siti pirata non sono neanche paragonabili alle perdite subite dai legittimi titolari di quei contenuti.
Una ricerca di Digital Citizens Alliance ha provato a quantificare il giro d'affari delle inserzioni pubblicitarie sulle principali piattaforme pirata. Sono stati analizzati 596 siti, divisi in quattro categorie: portali BitTorrent e peer-to-peer; siti contenenti elenchi di link; siti di streaming; siti di download diretto. Si stima che questi siti guadagnino ogni anno dalle pubblicità 227 milioni di dollari. Un grande portale BitTorrent può arrivare da solo a 6 milioni di dollari l'anno, ma anche un sito minore può facilmente raggiungere i 100mila dollari di guadagno dalle pubblicità.
I 45 siti più grandi, cioè il 7,6% del campione, si riservano il 62,5% degli introiti complessivi. Questi guadagnano mediamente 4 milioni di dollari l'anno ciascuno. Poichè tali piattaforme, basandosi essenzialmente sul furto del lavoro altrui, richiedono bassi costi di manutenzione, implicano anche altissimi margini di profitto: fino al 94% nel caso dei maggiori siti.
A essere danneggiati sono anche quei brand che vedono il loro marchio comparire come banner sui siti pirata, rovinandone la reputazione. Nel 30% dei casi infatti compaiono grossi nomi: parliamo per esempio di Amazon, Ford, McDonald's e Microsoft, che certo non gradiscono l'idea di essere associati a contenuti illegali.