Passioni dal passato: il revival emo
Rubrica saltuaria a cadenza irregolare in cui ci divertiamo a riprendere tendenze passate del mondo della musica e sonorità che, oggi, ci sembrano incredibilmente sorpassate e quasi dimenticate. Almeno finché non verranno massicciamente riprese per fare il trend del futuro, ovviamente.
Ciuffi di capelli neri che coprono occhi pesantemente ritoccati con l’eyeliner, smalto nero sulle unghie, teschietti dappertutto, florilegi di righe orizzontali e fantasie a quadretti: siamo verso la metà degli anni 2000 e la moda “emo” si sta imponendo un po’ ovunque, andando a rimorchio di un rinnovato entusiasmo per quello che una volta si chiamava emocore, una delle infinite filiazioni del punk.
Una filiazione la cui nascita risale alla metà degli anni 80 e che, cambiando pelle più volte, è riesplosa vent’anni più tardi, generando per la prima volta una sottocultura giovanile mainstream che, come tutte le mode, si è esaurita nel giro di pochi anni. Per farla brevissima, l’emo è un derivato dell’hardcore punk, frutto eminentemente americano del primo punk di fine anni 70. Negli USA, la musica si indurisce e si inasprisce, diventando più dura (hard, in inglese) e ancora più veloce, pesante e arrabbiata.
A metà anni 80, la scena hardcore figlia a sua volta, perché diversi musicisti vogliono imbrigliare l’aggressività del genere all’interno di una sperimentazione sonora più ampia e, soprattutto, affrontare tematiche più introspettive nei testi. Da qui, nasce l’emocore, un sottogenere dell’hardcore americano dove le chitarre pesanti si scontrano in una ricerca sonora colma di suoni dissonanti e riff più avventurosi e contorti, mentre le voci urlate dei cantanti parlano di sentimenti, disagio esistenziale, intimità, tanta alienazione e una vena di malinconia, espressa più nei testi che non nella musica (da cui emo, che sta per emotional).
In seguito agli stravolgimenti in tutto il mondo del rock provocati dall’esplosione del grunge, avvenuta intorno al 1990, cambia anche l’emocore, che resta comunque una realtà di ultra nicchia la cui linfa scorre nel mondo dell’underground più spinto. Qui, l’emo si contamina con la musica dark inglese emersa nel corso degli anni 80 e con il nuovo punk anni 90, reincontrando alcuni cliché più pop e, soprattutto, la melodia.
Da questa commistione, riemerge nei primi anni 2000 una nuova generazione di band che arrivano al successo prendendo il testimone dal cosiddetto pop-punk, dominatore della scena rock tra metà anni 90 e metà anni 2000. Più o meno arbitrariamente, sono stati affiliati alla musica emo tantissimi gruppi, tutti etichettati come band emo revival, in quanto ormai nipoti dei pionieri del genere: Fall Out Boy, Taking Back Sunday, Dashboard Confessional, From First to Lasr, Story of the Year, Thursday, The Used, Hawthorne Heights, Brand New, My Chemical Romance e moltissimi, moltissimi altri. Sono tutte realtà nate a cavallo del cambio di millennio che hanno conosciuto vari gradi di successo, proponendo ognuno la propria musica.
Già, la musica. Se ci si può sforzare di trovare una sorta di matrice comune, la realtà è che già nel momento di massima esplosione della corrente, attorno al 2005/2006, ogni band porta al genere le proprie influenze peculiari, dando origine a tantissime sfumature diverse. Se i primi dischi dei vari gruppi sono tutto sommato comparabili, con l’andare delle varie carriere i percorsi si distanziano talmente tanto da dubitare che abbiano mai potuto avere un’origine comune. Due sono i fattori che legano le varie esperienze: il primo è un approccio ai testi intimista, viscerale, intellettualmente un po’ pretenzioso e adolescenziale, nella sua sincerità. Il secondo è invece rappresentato proprio dai riferimenti originali, inizialmente comuni a tutti, come abbiamo visto.
E, spesso, ad accomunare gli artisti c’è un’estetica condivisa, diventata poi famosa. Una specie di divisa darkeggiante, fatta di capelli rigorosamente pettinati in maniera tale da coprire la faccia e preferibilmente tinti di nero corvino, occhi pesantemente bistrati, tatuaggi coloratissimi su tutto il corpo, abiti che alternano tantissimo nero, qualche fantasia a scacchi o a righe, un pizzico di colori fluo e qualche piercing, meglio se al labbro. Si tratta di un look nato in seno a band che si rifacevano più apertamente al dark punk di band seminali come i Misfits, mescolato con suggestioni in stile Tim Burton, all’epoca molto di moda, di cui si sono impossessati gli alfieri dell'emo revival e successivamente in grado di prendere piede con una tale forza che, ben presto, sfonda gli argini del mondo emo/punk e viene adottato anche da chi fa tutt’altra musica, come gli Avenged Sevenfold o i Bring Me The Horizon, che nulla hanno di emo in senso stretto.
Con l’affermarsi dell’estetica esteriore, divenuta vero sinonimo di “emo”, la relazione tra la parola e il genere musicale diventa così labile da scomparire, trasformando invece tutto il contorno in un movimento subculturale giovanile privo di una sua “colonna sonora d’elezione” che, cambiando la generazione, sparisce totalmente con il volgere del decennio e il cambiamento dei gusti dei ragazzi. Anche i protagonisti stessi della scena musicale dell’epoca vanno avanti: è celeberrimo il caso di Skrillex, diventato arcinoto come dj e producer di musica elettronica e da discoteca ma originariamente cantante e coautore delle canzoni del gruppo emo From First to Last, di recente rivisti insieme su un palco. Ha invece cambiato addirittura ambito Gerard Way, cantante dei My Chemical Romance (che si sono recentemente riuniti per un nostalgia tour in piena regola), oggi apprezzato fumettista e autore, tra gli altri, della serie originale di The Umbrella Academy.