Imparare ad ascoltare: intervista a Stefano Barone
Per il popolo di YouTube il suo nome è legato soprattutto a un brano, Alexander Supertramp, che ha collezionato la bellezza di 3,5 milioni di visualizzazioni.
Stefano sarà ospite di Cluster mercoledì 30 novembre con una speciale masterclass con concerto a seguire. Fra le criticità attuali dei servizi di streaming e la nostalgia per la sua splendida Napoli, abbiamo fatto due chiacchiere sul suo modo di intendere il mestiere del musicista.
Il tuo successo è legato, nel bene e nel male, a YouTube. Come vivi il rapporto con questo mezzo di comunicazione?
Purtroppo in questo nuovo pubblico di YouTube non c'è nessun tipo di investimento da parte dell'utente. Io comunque cerco di apparire per quello che sono. Ho vissuto come un problema il fatto di non riuscire a stare al passo con la necessità di appagare questo pubblico online. Stesso discorso per Facebook: oggi su Facebook non c'è una persona che si mostra per quello che realmente è. Persino le foto che ci facciamo, le facciamo per Facebook: per la maggior parte le pensiamo apposta per pubblicarle e avere visualizzazioni. Quando si fanno queste cose si perde tempo e ci si dissocia da quello che si è veramente. Ma non parlo con un sentimento critico, sono molto rilassato.
E per quanto riguarda i servizi di streaming?
YouTube e Spotify dovranno regolarizzarsi. La tua posizione nell'arte è diretta a un pubblico che ha i tuoi stessi interessi: io mi rendo conto che quello che faccio non è per tutti. Il brano di lancio del mio primo disco, Alexander Supertramp, ha fatto il giro del mondo e mi permette ancora oggi di “campare”. Ma quella è stata una cosa andata al di là della chitarra e al di là di YouTube. Il grande pubblico neanche conosce le altre cose che faccio. Spotify è una pagina web, una vetrina, ma non mi pubblicizza e prende una percentuale che va al di là del servizio che fa, con la condizione “se sei in, sei in; se sei out, sei out”. Su questo si dovrebbe ragionare.
Nelle tue masterclass insisti spesso sul fatto che dovremmo rieducarci all'ascolto musicale. Ci spieghi cosa intendi?
Le nuove generazioni hanno abbandonato il modo naturale di ascoltare musica. La musica non si ascolta con due cuffiette nel canale uditivo. Nella naturalezza dell'ascolto ci sono un corpo, dei padiglioni auricolari e le vibrazioni di un suono. Se si abbandona il gesto primordiale dell'ascolto si bruciano duemila anni o più della storia del suono. È una cosa innaturale infilarsi due pezzi di plastica nelle orecchie e spararsi la musica da lì. Io ho avuto anche la fortuna di essere educato al fatto che in un momento della giornata va ascoltata musica: su un divano o su una sedia, con due casse di buona qualità.
Questo approccio si riflette anche nel tuo modo di fare musica?
C'è naturalmente chi mi chiede: “Ma come si fa a scrivere questa musica?”. Ci vogliono dei passaggi di crescita. Se io oggi mi fermo a pensare perché riesco a scrivere questa musica, la prima cosa che vedo è Stefano di fronte all'impianto che ascolta i Pink Floyd col suo corpo, il suo corpo vibra e la musica gli rimane dentro. Poi litiga anche col vicino perché quando arriva Welcome To The Machine li mette a palla di cannone. Ma c'è soprattutto il mio corpo che reagisce, che vibra. È stato un elemento fondamentale per poter costruire tutti i miei pezzi.
Tu sei napoletano. Da tempo però ti sei trasferito a Roma e inoltre viaggi molto per il mondo. Ti manca qualcosa di Napoli?
È una città molto particolare, con il suo linguaggio, le sue vibrazioni. Sicuramente soffro di questo strappo. A Napoli abitavo di fronte allo Stadio San Paolo ai tempi di Maradona e quando me ne sono andato da Napoli è morto Troisi e se n'è andato Maradona. Da allora non è più la città di Troisi e Maradona. Comunque il pensiero di vivere Napoli nel prossimo futuro è in cantiere. È una cosa che mi è stata levata prematuramente e voglio fare pace con me stesso.
È una città molto musicale, non solo dal punto di vista artistico ma anche nei modi delle persone. Questo ha influito in qualche modo sul tuo gusto?
Assolutamente. Comunque noi italiani siamo leader della musica mondiale. Praticamente l'abbiamo inventata noi: abbiamo iniziato a scriverla, a darle i nomi e rappresentiamo i livelli artisticamente più alti. Napoli è la parte più melodica, ritmica, vibrante. Roma invece è la parte più pensata: non a caso i migliori tecnici e i migliori studi stanno lì. Torino e Milano sono un'altra cosa: il business, il pop. Io lavoro sul suono, e questa è una cosa che mi ha dato Roma. Questa crescita “multietnica” si sente nel lavoro che faccio. Negli ultimi dieci anni girare il mondo sempre con questa apertura mentale è stata una grandissima fortuna.
Fra i paesi che ti è capitato di visitare per motivi di lavoro ce n'è qualcuno che ti ha colpito dal punto di vista musicale o per la sensibilità nei confronti della musica dal vivo?
Negli Stati Uniti vedo un pubblico con un'educazione all'ascolto decisamente alta. Quando vengono a sentirti sono attenti, non chiacchierano mentre suoni. Dopo il concerto sono curiosi di venire a parlare con te. Un altro pubblico molto caldo è quello portoghese. È un popolo che vuole sempre essere felice. Come anche in Lettonia: ho trovato nei lettoni un popolo intelligente, capace di aprirsi a qualsiasi cosa. Il pubblico italiano è molto difficile. Però il fatto di salire su un palco e guardare negli occhi i tuoi simili crea una comunicazione. Anche perché conosciamo i nostri “panni sporchi”: ci capiamo al volo.
Se dovessi scegliere alcuni pezzi che ti rappresentano meglio come artista, quali ci consiglieresti di ascoltare?
Un brano a cui sono molto legato è System Up. Rappresenta la mia malinconia nei confronti di tante cose che mi piacerebbe vedere diverse, oltre che una mia lotta interna nei confronti delle mafie in generale. Non parlo solo della “cupola”, ma anche di quell'atteggiamento “sei in o sei out” dei servizi di streaming. Un altro brano molto simile è Live Zoe 9/11. Sicuramente non posso escludere Alexander Supertramp. Un brano più sincero non potevo scriverlo. Mi ha dato la fiducia di un pubblico e devo riconoscerlo. Infine aggiungerei Minimalaction. È stato un lavoro grosso che ho fatto, rappresenta i miei ascolti dai Pink Floyd alla musica minimalista contemporanea fino ai miei studi jazz.
Invece per quanto riguarda pezzi di altri chitarristi acustici?
Secondo me Aerial Boundaries di Michael Hedges rappresenta una nuova era, una distruzione degli schemi della composizione per chitarra. È un brano di una purezza unica. Penso poi ad altri tre personaggi. Metterei Pino Forastiere e Sergio Altamura, che sono stati miei maestri. Di Pino scelgo assolutamente Rito, contenuto in Why Not?. Mi ha aperto la mente in un modo più moderno. Di Sergio Altamura penso al suo talento, soprattutto nel suono. Ha tirato fuori la mia natura del suono. Se dovessi scegliere un brano di Sergio direi Aria Meccanica. Poi c'è la persona che mi ha dato un'altra chiave: il mio “gemello” Dominic Frasca, un genio. Lui mi ha rivoluzionato ancora una volta le possibilità di composizione. Un brano rappresentativo è ovviamente Deviations.