INTERVISTA A GIOVANNI FALZONE: “UNA CONVERSAZIONE FATTA DI SUONI”.
Musicista, trombettista classico e jazz, compositore e direttore italiano.
Un grande esempio di come un musicista con una formazione a 360°, riesca ad esprimersi nei diversi generi musicali fino in fondo, con amore, passione e grande professionalità.
Prima tromba dell’Orchestra Sinfonica “Verdi” di Milano.
Vincitore di prestigiosi premi musicali quali il “Django d’or” e il “Top Jazz” come miglior nuovo talento jazz.
Fondatore della “Contemporary Orchestra”, un organico strumentale che fonde musica classico/contemporanea, jazz e rock.
Docente di tromba e musica d’insieme jazz presso il Conservatorio di Brescia.
Come e perché hai iniziato a suonare la tromba?
Il perché è davvero molto buffo, non era assolutamente previsto.
Avevo 17 anni. Mi trovavo ad una Novena natalizia, una festa tipica che si usa fare dalle mie parti nove giorni prima di Natale.
Un gruppo di strumentisti a fiato, accompagnato da qualche percussionista, va in giro per le strade del paese suonando. Vengono allestiti dei piccoli altari che indicano delle soste, durante le quali, viene offerto da mangiare e bere ai musicisti.
In uno di questi momenti di pausa ho visto la tromba del ragazzo che la suonava appoggiata insieme agli altri strumenti e, non so come mai, mi è venuto in mente di chiedergli se potessi provare a suonarla.
Mi è piaciuto molto, nei giorni successivi continuava a tornarmi in mente questo ricordo tanto che, passate le feste, sono andato dal Maestro della banda raccontandogli l’episodio. Lui mi disse che in quel momento in banda ci sarebbe stato più bisogno di un euphonium più che di una tromba, ma io ero molto determinato: o la tromba o niente!
Il Maestro prese una tromba vecchia, iniziò a mettere l’olio e provare i pistoni, io ero incantato, se chiudo gli occhi, ho ancora in mente quel momento come se stesse accadendo ora.
Me la diede in mano e mi fece provare alcuni suoni.
Vista la mia prontezza nel riuscire a suonare fin da subito, me la lasciò e mi disse: “Portala a casa e appena avrai imparato a suonare qualsiasi cosa, vieni qui e me la fai sentire.”
Come la presero i tuoi genitori?
Inizialmente furono abbastanza indifferenti alla cosa pensando fosse solo un’altra delle mie fantasie da adolescente.
Quando mio padre mi chiese cosa dovessi fare con quella tromba gli spiegai che il Maestro me l’avrebbe lasciata fin quando non ne avrei comprata una e la sua risposta fu: “Allora quest’estate vai a lavorare e te la compri.”
Probabilmente fu questa la molla che mi ha spinto a provarci, oltre al fatto che mi piaceva molto.
Sei riuscito a preparare un brano per il tuo Maestro?
Si, prendendo l’idea di mio padre come sfida personale, iniziai a suonare a casa, provare, sputarci dentro l’anima.
Ad un certo punto, non so come, sono riuscito a imparare a orecchio la melodia di “In the mood” di Glenn Miller, perciò tornai dal Maestro per fargliela sentire.
Lui rimase colpito e capendo il mio talento, ma anche il mio carattere riuscì a farmi suonare senza tediarmi con la teoria, non che non sapesse quanto fosse importante, ma aveva trovato un modo per non farmi scappare, mi dava gli spartiti sui quali scriveva anche i numeri delle posizioni sotto le note e registrava le parti su una musicassetta in modo che io potessi lavorare ad orecchio e associare le due cose.
Quanto tempo è passato prima che ti iscrivessi in Conservatorio?
Tre mesi.
Un ragazzo che suonava in banda con me e che già studiava in Conservatorio ha scritto la domanda per me.
Io all’inizio ero titubante, poi ho deciso di tentare l’esame di ammissione.
E come è andata?
Non fui preso, ero idoneo, ma non ammesso.
Questa delusione mi ha fatto mettere via la tromba. Decisi di non suonare più.
E poi?
E poi è successo che a metà settembre il Conservatorio ha chiamato a casa mia comunicando che avevano aperto una nuova classe di tromba e che il mio nuovo Maestro avrebbe iniziato le lezioni di lì a poco perché non amava aspettare l’inizio canonico del mese di novembre.
Da un lato ero felicissimo, ma dall’altro disperato perché erano quasi tre mesi che non suonavo. Perciò ho cercato di recuperare in pochissimi giorni, ma feci peggio perché mi spaccai tutto il labbro.
La mia prima lezione fu un totale disastro.
Il mio Maestro, dopo un po’, capì la situazione, mi diede una lista di libri da comprare e il nome dell’insegnante di teoria e solfeggio che, scoprii dopo, essere un tipo davvero tosto:
il primo giorno mi diede 40 esercizi del Pozzoli da fare nel giro di due giorni.
Ricordo che ero arrabbiatissimo con il mio amico che mi aveva spinto a fare l’ammissione, ma lui mi aiutò molto e io mi misi di punta.
Alla fine dell’anno feci l’esame di conferma e fui ammesso al quarto anno per diplomarmi dopo tre anni.
E a quel punto hai iniziato a suonare nelle orchestre. Ci racconti come è andata?
Guarda, anche questa è una storia che se ci pensi è incredibile.
Pochi mesi prima di diplomarmi ho visto nella bacheca del Conservatorio una locandina di un bando per prima tromba di un’orchestra giovanile di Spoleto.
L’audizione sarebbe stata il 24 luglio. Io mi diplomavo il 23.
Il diploma era, chiaramente un requisito per partecipare. Ho chiamato e mi dissero che avrei potuto presentare una certificazione del diploma fatta dalla commissione d’esame.
Decisi di iscrivermi informando la mia famiglia che non avrei fatto ritorno a casa per i festeggiamenti del diploma, ma che sarei tornato solo qualche giorno dopo.
La sera del mio diploma presi il treno notte per Roma che purtroppo fece ritardo e persi la coincidenza con il treno che dovevo prendere per arrivare a Spoleto. Riuscii ad avvisare il teatro e per fortuna la commissione mi aspettò.
Arrivai per l’audizione con oltre tre ore di ritardo, non avevo dormito nemmeno un’ora, ero tutto accaldato, entrai e suonai.
Quando la segretaria uscì dalla sala per comunicare il vincitore e disse il mio nome non potevo crederci!
Cercai una cabina telefonica per chiamare mia madre avvisandola che non sarei tornato per la festa perché il giorno dopo dovevo iniziare la mia prima collaborazione orchestrale.
Da lì in poi non sono mai più tornato a casa se non per qualche giorno di vacanza.
Ho iniziato a fare diverse audizioni, tra il ’96 e il ’98 ne ho vinte molte fino all’audizione in Verdi a Milano dove mi sono fermato.
Come hai conosciuto il jazz?
Mentre lavoravo in Verdi è successo che stavamo facendo delle registrazioni con Riccardo Chailly per la Decca nella sala Verdi del Conservatorio di Milano e un giorno, uscendo, ho notato un cartello che annunciava l’inizio dei corsi jazz a settembre.
Mi sono iscritto e alla fine del primo anno sono andato a fare i Summer Clinics della Berklee a Perugia, Siena e Nuoro.
Il destino ha voluto che quell’anno vincessi la borsa di studio come miglior talento, era il 2000, per andare alla Berklee School of Music di Boston.
Come hai avuto l’idea di iniziare a scrivere?
Mi sono avvicinato agli studi di composizione già quando ero in Conservatorio a Palermo, in più quando in orchestra avevo molte battute di aspetto, prendevo le partiture dei brani che stavamo suonando e le seguivo, cerchiando e segnando i passaggi armonici che trovavo interessanti per poi sviluppare delle idee quando tornavo a casa.
Durante le pause dalle prove chiedevo ai miei colleghi orchestrali di provarle per sentire come suonavano. Intanto, incoraggiato anche dal mio insegnante di jazz in Conservatorio, Tino Tracanna, al quale devo molto, scrivevo piccoli brani che lui riteneva molto interessanti e originali.
Con lui hai inciso il tuo primo disco
Esatto, prima ancora di diplomarmi ho registrato il mio primo disco nel quale ha partecipato anche Tracanna.
Prima di questo però, avevo registrato un disco con l’orchestra Verdi di un progetto scritto da me per i matinée della domenica mattina, per cinque improvvisatori più orchestra da camera.
“Music for five” è stato il primo di una lunga serie…
Si, questi due dischi vennero notati dalla , un’etichetta molto importante all’epoca, che mi contattò offrendomi un contratto di tre anni per tre album.
Per quanto tempo hanno convissuto classica e jazz nella tua vita?
Quattro anni e non sono stati semplici.
La sera suonavo jazz facendo le ore piccole, al mattino presto dovevo essere seduto in sezione col labbro pronto al primo suono da emettere, pulito e intonato.
Sono stati anni di grande sacrificio.
Quando hai deciso di prendere solo una strada?
Nel 2004, dopo il terzo disco, ho ricevuto il riconoscimento francese “Django d’or” come nuovo talento a giugno e a dicembre il “Top jazz”, sempre come miglior nuovo talento, della rivista “Musica jazz”.
Questo, insieme alla rapidità degli eventi e al fatto che in questa musica mi riconoscevo di più, mi ha fatto capire che era il momento di provarci seriamente, come si suol dire, “ora o mai più”.
E quindi mi sono fatto coraggio e ho abbandonato la carriera come musicista classico.
Hai abbandonato la carriera, ma non la musica classica
No, infatti, dato che per me la musica non è fatta per essere pensata a compartimenti stagni, ho creato un’orchestra dove potevo mettere tutti i miei interessi incrociando inizialmente i due ingredienti che fino a quel momento avevo sentito più vicini alla mia sensibilità che sono la musica classico/contemporanea del ‘900 e il jazz, successivamente ho inserito il terzo elemento che è il rock, andando così a riprendere i miei ricordi più giovanili di ascolti di gruppi come i Deep Purple, Led Zeppelin, Pink Floyd, gruppi rock con una ricerca di suoni sofisticata, che mi hanno sempre appassionato.
Così è nata nel 2009-10 la mia “Contemporary Orchestra” con la volontà di mettere insieme questi tre mondi che rispecchiano la mia filosofia di vita.
Cosa rappresenta per te il jazz?
La musica esiste prima dei generi.
È l’esigenza dell’uomo che tende ad incasellare tutte le cose, ma se noi ci pensiamo bene la musica esiste prima di tutto.
Esiste la voce dell’uomo, il canto degli uccelli, il battito cardiaco… tutto questo è musica prima ancora che si possa definire un genere in particolare.
La mia fortuna è stata incontrare il jazz, un genere che ha la grandissima qualità di accogliere e far convivere insieme più cose proprio perché nasce con questa prerogativa: è la musica che fa incontrare le musiche, come un catalizzatore nel quale convergono tutte le periferie attraendole a sé e rinnovandosi ogni volta proprio perché può mescolarsi con quello che in quel momento arriva, è una musica senza pregiudizi.
Il jazz ha un codice alla base che è legato ad linguaggio come le sigle, la pronuncia, il timing, l’ascolto e il creare in tempo reale, ma non in maniera autoreferenziale, creare in virtù di ciò che esiste in quel momento: è la capacità di dialogare e ascoltare.
Così, come avviene in un discorso tra due persone che dialogano. Il jazz assume un valore quando diventa una vera e propria conversazione.
È la capacità di interplay tra gli esecutori. In questo modo il jazz abbatte le barriere.
Esso è infatti la fusione tra la cultura afroamericana per quanto riguarda la parte ritmica e quella europea per quanto riguarda la parte armonica.
Nasce in una terra che ha preso in prestito altre culture.
Il jazz è uno stile di vita.
Alla base, per me, ci deve essere il desiderio costante dell’incontro e dell’apertura verso l’altro anche verso l’incognito perché talvolta non sai come inizia né come finisce.
Tu collabori spesso con i ragazzi. Che tipo di approccio hai?
Il mio desiderio, che negli anni è diventato sempre più un’urgenza per me, è quello di condividere le mie esperienze anche con chi ha un approccio più amatoriale della musica.
Il mio tentativo è quello di riuscire a portare la musica a un livello di condivisione di linguaggio entrando in quest’ottica del suonare insieme, dell’ascolto collettivo facendo attenzione a chi ho come compagno di leggio adeguandomi a lui, alla sua sonorità senza sopraffarlo.
Inoltre mi piace aggiungere l’aspetto creativo dell’improvvisazione, che esiste ancora prima del jazz, ovvero la volontà di creare liberamente senza dimenticare che alla base deve esserci il desiderio di instaurare una conversazione attraverso i suoni.
Perché hai scelto di collaborare con Cluster?
Alla base di c’è Cluster la bellissima energia di una persona che crede molto in quello che fa mettendo tanta passione ed entusiasmo che è Vicky Schaetzinger.
A me le persone appassionate piacciono! La conosco da diversi anni e mi ha sempre colpito il suo impegno nel voler fare qualcosa per questi giovani che lei ama molto, dando la possibilità, a chi vuole, di venire a contatto con cose che altrimenti si perderebbe. Questo senza mai tralasciare la qualità.
Cluster, infatti, offre un parco di insegnanti molto nutrito e coeso ed esperienze come la serata per la FIM che stiamo organizzando sono la riprova del voler dare un’alternativa a chi ha la sensibilità per coglierla.
La musica è un’occasione e, in quanto tale, va vissuta come un dono.
Altri progetti in corso?
In questo momento sto lavorando ad un progetto sull’ultimo album di David Bowie.
Ho riarrangiato tutti i brani per il mio trio e l’orchestra sinfonica della Verdi e verrà presentato il 9 giugno 2019 presso l’Auditorium di largo Mahler in prima assoluta.
È un lavoro molto importante per me perché ci sto lavorando da diverso tempo, scrivere per orchestra non è semplice, ma sono molto felice soprattutto perché rappresenta il mio ritorno in veste di compositore e solista in un luogo dove sono stato per tanti anni.
È un po’ come se tornassi a casa e anziché far cucinare mia mamma, dirle:
“Non preoccuparti, stasera cucino io!”