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“Il basso? Deve sceglierti lui”: intervista a Paolo Costa

Milanese, classe 1964, Paolo si avvicina al basso elettrico da autodidatta e comincia la sua avventura professionale quasi per caso a 19 anni. Da oltre trent'anni presta la sua arte ai big della canzone italiana per sessioni in studio di registrazione e tour di concerti – di cui uno, quello con Eros Ramazzotti, a livello mondiale.

Da quest'anno è insegnante di basso presso Cluster e l'abbiamo incontrato per una chiacchierata sul suo strumento e sul mestiere di chi per lavoro suona musica di altri.

 

Qual è un artista italiano – non bassista – che ti ha ispirato professionalmente?

Il mio Pigmalione è stato Roberto Colombo – produttore, tastierista e marito di Antonella Ruggiero. È stato il primo che mi ha dato fiducia. Io avevo un gruppo che si chiamava Luti's Band. All'inizio questa band provava nelle cantine di un tale di cognome Luti che aveva due o tre negozi di tessuti a Milano. Facevamo tanti pezzi – eravamo molto “compositivi” – ma non avevamo il sentore di come svilupparli e ci venivano fuori tutti simili. Ci voleva un arrangiatore. C'era il disco di Alberto Camerini, Tanz Bambolina, che era stato fatto da Colombo e aveva dei suoni che per l'epoca erano molto innovativi. Per cui l'abbiamo cercato. Io e gli altri della band ci siamo chiusi nelle cabine telefoniche a chiamare tutti i Roberto Colombo presenti sull'elenco del telefono. Alla fine l'abbiamo trovato. Lui invece che riattaccare ha detto: “Vengo a sentirvi!”. Così è arrivato e ci ha ascoltati. Ci ha chiesto di fare dei provini. Stava registrando un disco alla Symphony – uno studio storico in viale Monza – e ho scoperto dopo che era Bandido di Miguel Bosé. In due pezzi gli mancava il basso e mi propose di registrarlo. Io feci delle parti strane con gli armonici e Colombo le tenne. In seguito lui mi chiamava a suonare ma mi cancellava quasi sempre, però mi faceva capire cosa non andava bene. All'epoca andavano molto cose elettroniche molto precise: si usava mandare il trigger della grancassa in ottavi sulla tastiera e il basso andava su quello, quindi era un tipo di attacco molto preciso. Mi diceva: “Prova tu col basso”. Ma l'uniformità del suono non c'era. Lui me l'ha fatta venire. Quell'approccio mi ha fatto uscire dal mio corpo e mi ha fatto ascoltare dal punto di vista del produttore.

 

Spesso il pianoforte viene definito uno strumento completo. Da questo punto di vista il basso è senz'altro uno strumento “incompleto”: ha bisogno degli altri, dello stare insieme. È un limite o un pregio?

Né uno né l'altro: è la sua caratteristica. Se lo prende in mano un musicista che è abituato al sax, per lui sarà uno strumento limitato. Ma se lo prende in mano uno che è abituato a suonare lo scacciapensieri troverà uno strumento che ha sia il ritmo che la melodia. Io ho imparato a suonare il basso da autodidatta. Accendevo la radio e stavo ore a suonare quello che passava, una cosa che consiglio spesso agli allievi. Per due motivi. Primo: ti alleni a capire in fretta qualcosa. Secondo: ascoltando cose che non sceglievo io mi sono abituato poi a quello che sarebbe stato il mio lavoro, cioè reagire in maniera costruttiva e veloce su musica di altri.

 

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© Luca Bianchi

 

È mai successo che in studio un brano prendesse una determinata direzione di arrangiamento a partire da una tua idea per la parte di basso?

Succede spesso. Molte volte si fanno le registrazioni con poche cose di pre-produzione: magari suoniamo su un click, sugli accordi di una chitarra, per cui è tutto da costruire. Dipende molto dal tipo di arrangiatore con cui stai lavorando. Ci sono quelli che amano arrivare con la parte già esattamente scritta. Sempre di più bisogna essere veloci. Una volta ci si poteva permettere di stare un giorno su un brano solo. Io lo sento che i dischi di adesso vengono fatti più velocemente: suonano tutti in maniera simile. Una volta i dischi suonavano diversamente perché c'era l'uomo di mezzo. Non era solo la marca dei prodotti che faceva suonare bene un disco: se il fonico era bravo la batteria suonava bene, se no suonava male. Adesso col computer sono tutti arrangiatori, fonici, produttori, DJ.

 

Mentre è dato per scontato che la chitarra elettrica viva di effettistica, nel caso del basso ci sono diverse scuole di pensiero. Il rischio è sempre quello di snaturare il suono. Per te qual è il giusto mezzo?

Io uso molto i pedali dal vivo e quasi mai in studio, dove lavoro di più sulla scelta dello strumento. Ho molti bassi e ciascuno ha un suono diverso. Ho la mia teoria: non mi piace equalizzare troppo il suono di un basso; se ho bisogno di un certo suono preferisco partire da uno strumento che già ce l'ha. Quando registri non ci vuole il suono “bello”: ci vuole il suono adatto, e non sempre le due cose corrispondono. Pensiamo al basso dei Muse: è il suono di basso giusto per quel progetto, quello che ha dato il “fiocchetto” al loro sound. Dal vivo hai anche meno possibilità di cambiare basso velocemente, per cui i pedali mi servono a fare dei cambi veloci di suono e soprattutto di equalizzazione.

 

Un grande bassista che non c'è più, Victor Bailey, diceva che il basso elettrico è in realtà uno strumento acustico, nel senso che è il suono del legno di cui è fatto. Quali sono i legni che ti piacciono di più?

Posso parlare riguardo alla tastiera. Nel basso le due grandi famiglie sono palissandro e acero. Il palissandro secondo me è più stabile sulle basse, più corretto forse per la musica “popolare”, quella in cui il basso dà la nota alla cassa. In situazioni in cui il basso fa qualcosa di complementare alla cassa mi piace anche l'acero, perché ha una punta di “sporco” e ha più “buchi” di frequenza, è come se avesse ogni tanto un mancamento fra le basse e le alte. Io ho fatto i miei primi anni solo con un manico in acero, con un Music Man Sting Ray. Con quel basso ho registrato un sacco di brani, come Extraterrestre di Finardi e Don Raffaè di De André.

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Paolo Costa live con Franco Battiato

 

Non è la prima volta che insegni musica. Che tipo di corso di basso ci dobbiamo aspettare da te? E che tipo di insegnante sei?

Siccome sono autodidatta sono abbastanza pragmatico. Cerco di inserire innanzitutto l'ascolto, per la definizione degli stili. Adesso arriva tutto mescolato a tutto, ma un musicista deve capire quali sono gli ingredienti funk, rock, jazz e così via. È bello mischiarli tutti, ma con coscienza. Per cui io do anche molti cenni storici. Ho stilato una lista dei bassisti che hanno fatto qualcosa di importante dal punto di vista sonoro negli ultimi 30 anni e poi la faccio vedere ai ragazzi, chiedendo di mettere una crocetta su quelli che non conoscono. A volte ho visto degli A4 pieni di crocette. Allora magari gli dico di andare a sentirli. Per me The Nightfly di Donald Fagen è un album importate per la didattica del basso: in un disco solo ci sono cinque bassisti. Se vado a sentire bene cerco di capire perché ci sono cinque bassisti e soprattutto che differenza c'è tra uno e l'altro.

 

Un'ultima domanda: perché il basso elettrico? A chi vorrebbe intraprendere lo studio ma è indeciso cosa diresti?

Direi che il basso elettrico è uno di quegli strumenti che ti devono scegliere loro. Molto spesso altri strumentisti dicono: “Voi bassisti”. Vuol dire che nella nostra categoria c'è un minimo comun denominatore. In macchina magari il bassista è quello più organizzativo: è così anche sul palco, fa la nota fondamentale ma come funzione deve unire tutto il lato armonico con quello ritmico. Se togli il basso senti la batteria staccata dal resto. Perché scegliere il basso? Perché è uno strumento che, pur facendo “una nota sola”, fa una nota importantissima. Ma basta sentire i Beatles per capire quale strumento uno vuole suonare.

 

 

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