La segreta bellezza delle imperfezioni: intervista ad Antonello Fiamma
L'occasione è importante per Antonello Fiamma, docente di chitarra presso Cluster: è da poco uscito il suo secondo lavoro in studio, intitolato Imperfections, che presenterà live nel corso della serata.
Dopo l'esordio con The Round Path del 2014, questo nuovo album di chitarra acustica fingerstyle riflette – come suggerisce il titolo – sul concetto di imperfetto: “Può un'imperfezione essere sviluppata per arrivare a qualcosa di bello?”, si chiede Antonello. Lasciamo che sia il vostro udito a rispondere.
Mi ha colpito il titolo di questo tuo lavoro: Imperfections. Perché l'hai chiamato così?
È un concetto un po' particolare. Avevo dei brani che non avevano nulla in comune tra di loro, a differenza di The Round Path (il precedente album, ndr) in cui c'è un filo conduttore che collega a livello tematico i brani tra di loro. In questo caso invece ogni brano è a sé stante. L'unica cosa in comune sono le imperfezioni: sono tutti pezzi nati da spunti sbagliati, da imperfezioni di diversa natura – concettuale, tecnica, compositiva – che però messe insieme hanno dato vita a un brano di musica, a una bella creazione. Il concetto di base è questo: può un'imperfezione essere sviluppata per poi arrivare a qualcosa di bello? Il concetto di “imperfetto” non è legato al brutto, allo sbagliato: per questo ho voluto intitolarlo Imperfections.
Tu pensi che ci sia stata un'evoluzione rispetto a The Round Path? Come vedi questo disco in rapporto al precedente?
Sicuramente si vedono tre anni di live e di studio in più. E sono molto contento di questo: il rischio di una seconda produzione è proprio quello di fare una copia della prima. La linea è sempre quella: è sempre improntato sulla tecnica del fingerstyle, i pezzi sono per sola chitarra, non c'è un cantato, non c'è una band. Ci sono un paio di tracce come l'ultima...
...in cui c'è il contrabbasso.
In realtà sono tutte chitarre. La linea del basso l'ho suonata io con l'octaver. Quel pezzo, ClusterMood, è il jingle che ho scritto per tutti i video promozionali di Cluster dell'anno scorso. Ho voluto omaggiare questa scuola per tutto l'affetto che mi ha sempre manifestato. Quindi il filo conduttore è sempre quello: chitarra strumentale, col fingerstyle in varie forme tecniche – da quella alla Tommy Emmanuel fino alle accordature aperte – però ci sono delle differenze. Le composizioni sono diverse, più strutturate. Non a caso ho voluto aspettare tre anni. Se qualcuno vorrà acquistare tutta la mia discografia tra 15 anni dal primo all'ultimo album dovrà sempre sentire una differenza. È come l'evoluzione di una persona: dev'essere la stessa cosa anche quando crei artisticamente. Sono molto soddisfatto di questo disco dal punto di vista sonoro per il lavoro che c'è stato dietro. C'è anche una collaborazione con un chitarrista molto importante del panorama fingersyle, Maneli Jamal.
Per quanto riguarda l'aspetto tecnico di questa produzione, com'è stato registrare questo disco? Quante e quali chitarre hai usato?
Ho usato solo una chitarra, la mia Cole Clark. È stato registrato – tranne per gli ultimi due brani (Maneli ha registrato dal Canada) – nello studio di Stefano Barone a Roma. Ci tenevo che mi seguisse perché il produttore artistico è lui. Mi ha seguito passo passo, anche nella scelta dei brani e della scaletta. Poi il grosso del lavoro sul suono è stato fatto da Eugenio Vatta, uno tra i fonici migliori in Italia. Lui ha tirato fuori il sound che volevo da questo lavoro.
Un pezzo come La Route Blanche mi ha colpito perché ha una scrittura secondo me molto complessa: passa da un intro con molti effetti a un tema gypsy jazz e poi a una fuga alla Bach. Mi racconti la sua genesi?
Quello è uno dei pezzi più “vecchi” dell'album. Però è sempre stata una continua evoluzione, come dicevamo prima: unire parti che prese singolarmente non avevano un senso, erano “sbagliate” per un brano, però messe insieme hanno preso un senso. È un pezzo nato principalmente da un'immagine. Ero sulla strada per andare a suonare a un festival nel nord della Francia. Questa Route Blanche è l'autostrada che passa oltre il Monte Bianco con un bellissimo scenario paesaggistico e questa cosa mi ha fatto viaggiare con la fantasia. Quell'intro ha richiesto molto tempo per raggiungere quel risultato perché volevo proprio essere in contrapposizione con quello che viene dopo, la parte in fingerpicking normale. Così come la parte “fugata”: anche quella è frutto di un'evoluzione col tempo. Volevo che questo pezzo fosse diviso in parti a sé stanti che però allo stesso tempo si legassero bene insieme.
In questo disco c'è la cover di un pezzo molto noto: Who Wants to Live Forever dei Queen. Perché hai scelto proprio questo brano per una cover?
Ho scelto in particolare questo perché è un brano scritto da Brian May. Mentre quasi tutti i pezzi dei Beatles erano firmati Lennon-McCartney, loro avevano i pezzi di Deacon, di Mercury, di May, di Taylor, che portavano in sala e suonavano insieme. È un pezzo bellissimo che suono sempre nei live, soprattutto perché – anche se non lo canto – penso al significato del testo. È molto importante per me perché ricordo che era su uno dei primi dischi che ascoltavo da ragazzino, il Greatest Hits II. Io lo ascoltavo a ripetizione aspettando che arrivasse quella canzone. C'è quel solo che è di quattro note ma è impeccabile. Nei miei dischi io non sono molto per proporre i riarrangiamenti però quel pezzo era significativo anche per il discorso dell'imperfezione: rispetto all'originale non sarà mai a quel livello. È implicitamente imperfetto.
In riferimento a un pezzo come Django, tu ti ricordi quando è stato il tuo primo contatto con Django Reinhardt?
In realtà non è riferito a Django Reinhardt...
Al film?
Sì! Infatti a livello di tecniche utilizzate non è un pezzo manouche. È pensato per le musiche di Django di Tarantino. È ispirato a quel contesto, al western: il tema è molto incalzante, sul solo mi immagino la scena del cowboy a cavallo che va a salvare sua moglie. È un viaggio nel vecchio west, tutto qua.
Come dicevamo prima, c'è la chitarra di Maneli Jamal in Mirrors. Perché secondo te è una collaborazione importante?
Senza dubbio credo che Maneli sia fra i primi dieci chitarristi fingerstyle al mondo. Sentirlo è ogni volta una scoperta e un modo anche per imparare. Lui poi è nel giro da molto prima di me. Quando ero ragazzino vedevo i suoi video sul canale della Candyrat. È sicuramente una cosa che mi fa molto onore il fatto che abbia accettato, anche perché noi abbiamo un bel rapporto di amicizia: ogni volta che viene qua ci divertiamo un sacco, prima e dopo i live. Lui ha accettato subito questa mia proposta. Mi ha mandato tante versioni del brano e poi abbiamo scelto quelle migliori. Sicuramente quando tornerà in Italia faremo altre cose.