Addio a Grooveshark e a Josh Greenberg, pioniere dello streaming
È successo tutto nel giro di nove anni. Nel 2006 il 19enne Josh Greenberg, allora matricola all'Università della Florida, decide di mettere in atto una piccola rivoluzione digitale. Il ragionamento è semplicissimo: se per guardare un video le persone vanno su YouTube – pensò Josh – e per cercare un'immagine possono farlo con Flickr e Google Immagini, perché non fare qualcosa di simile per la musica?
Bingo. All'epoca il mondo della musica digitale era ancora strettamente legato al modello del download, che fosse quello legale di iTunes o quello pirata di LimeWire poco importa. Il punto è che per ascoltare la musica bisognava ancora possederla (un possesso virtuale, non più di cd e vinili ma di MP3), mentre il mondo del video aveva già compiuto la sua transizione in favore dell'accesso universale dei contenuti. Io non possiedo i video che guardo su YouTube, ma mi basta una connessione internet per poter scegliere fra un "catalogo" sterminato di filmati di ogni tipo. Il possesso diventa un elemento accessorio.
Josh Greenberg era un visionario che faceva parte di quei "milionari da cameretta" che hanno iniziato giovanissimi come Mark Zuckerberg di Facebook e Shawn Fanning di Napster, con la differenza che lui milionario non lo è diventato mai.
Insieme a un'altra matricola, Sam Tarantino, mise su un sistema che consentiva di trasmettere brani musicali proprio come YouTube faceva con i video. Il progetto era tale da immaginare, sul lungo periodo, di poter battere la pirateria e persino di superare il modello di fruizione basato sul download. Tutto vero, ma i ragazzi non tennero conto di un fattore cruciale: il loro servizio era ancora fortemente centrato sull'idea di peer-to-peer invece che costruire un vero catalogo standardizzato di brani. In questo Grooveshark era più vicino a Napster che non a Spotify, che fu lanciato qualche mese dopo con un modello di streaming completamente diverso.
I brani musicali presenti sui server di Grooveshark erano interamente caricati dai singoli utenti. Questo favoriva, tra l'altro, la proliferazione di "doppioni" e mancava un sistema di titolazione uniforme dei pezzi. Come accade su YouTube, appunto. Da qui alle prime accuse di violazione di copyright da parte delle case discografiche il passo fu brevissimo. E presto iniziarono i primi guai.
Senza il sostegno delle etichette, Grooveshark non riuscì ad attirare investimenti e personalità manageriali capaci di traghettare il servizio da startup a business consolidato. Nei suoi primi cinque anni di vita, l'azienda riuscì a raccogliere a malapena un milione di dollari di investimenti: nello stesso periodo Spotify fece cento volte tanto e si guadagnò gli accordi con le major. Persino quando aveva 30 milioni di utenti registrati, Grooveshark aveva difficoltà a tenere un libro paga.
Tutte le grandi etichette fecero causa alla piattaforma per violazione di coypright e la app fu rimossa da Google Play e dall'App Store, tornando forzatamente al desktop mentre il resto del settore si muoveva a grande velocità verso il mobile.
Grooveshark è sopravvissuto in mezzo a un mare di difficoltà fino al colpo di grazia: a settembre dell'anno scorso un giudice federale ha ritenuto che il servizio costituisse violazione di copyright. Questo comportava fra l'altro una montagna di debiti – circa 50 milioni di dollari di danni – dovuti alle case discografiche come riparazione. Soldi che la società non ha.
Il 30 aprile di quest'anno il servizio è stato oscurato. Tragicamente, Josh Greenberg non è sopravvisuto a lungo alla sua creatura: il 19 luglio è stato trovato senza vita nella sua abitazione a Gainesville in Florida, in circostanze che sarà l'autopsia a chiarire. Aveva appena 28 anni.
Con lui se ne va un pezzo di storia del web dell'ultimo decennio. Con i giusti investimenti Grooveshark avrebbe potuto costruire un sistema pienamente legale come YouTube ha saputo fare nel tempo e magari avrebbe battuto sul nascere altri servizi concorrenti come Spotify e Deezer.