Blackstar, il testamento di David Bowie
Quanto spesso si può dire di qualcuno che è morto facendo davvero ciò che più amava? David Bowie, cantautore e artista in senso pieno, ci è sicuramente riuscito, uscendo definitivamente di scena mentre era in corso la sua ultima, strepitosa operazione musicale e, in realtà, artistica. Blackstar, il suo ultimo disco, viene distribuito l’8 gennaio 2016 e, due giorni dopo, il 19 gennaio, il grande David chiude gli occhi per l’ultima volta mentre il mondo si interroga di fronte al tono struggente e crepuscolare di tutto il disco, sublimato in maniera impeccabile dai video che accompagnano il primo singolo, una canzone che si chiama come l’album, e il secondo, Lazarus, usciti nei due mesi antecedenti l’LP completo.
Registrato in segreto a cominciare da un anno esatto prima dell’uscita, Blackstar è senza mezzi termini il lascito testamentario artistico di Bowie. Un album complesso, stratificato, non proprio di semplicissimo ascolto, che mira a raccogliere tante delle suggestioni diversissime che hanno influenzato la carriera del Duca bianco, dal periodo di Space Oddity a quello di Station to Station, passando naturalmente per Ziggy Stardust, Heroes e la trilogia berlinese e, beh, tutto il notissimo repertorio del cantautore britannico.
Il tutto viene filtrato dalla natura molto particolare dei musicisti chiamati a incidere il disco (i quali arrivano in sala avendo già sentito delle demo di ogni canzone realizzata dallo stesso Bowie), un quartetto jazz newyorkese già affiatato e stabile che suona insieme da diverso tempo guidato dal sassofonista Donny McCaslin. Sofferente a causa del cancro al fegato che lo sta consumando, Bowie sa di essere al lavoro sul suo ultimo disco, sa che Blackstar sarà recepito dal pubblico come un testamento musicale da aggiungere al corpus precedente formato da tutti i suoi successi e sceglie scientemente di fotografare lo stato d’animo del suo ultimo anno di vita, infondendo nell’opera un inevitabile tono crepuscolare che, nelle sue mani, viene declinato ancora una volta come poesia formata da parole e musica.
L’album si compone di sette brani di cui solo quattro sono veri inediti: 'Tis a Pity She Was a Whore e Sue (Or in a Season of Crime) erano già state registrate e diffuse precedentemente ma vengono re-incise apposta per Blackstar, in maniera da rendere il sound e il clima più omogenei lungo tutto il disco. Lazarus invece era parte integrante del musical omonimo scritto da Bowie e in scena a teatro fin dalla prima settimana di dicembre del 2015, anticipando anche l’uscita del singolo, ma ovviamente non nella versione interpretata dall’ex Ziggy Stardust. Per quanto rimanga un disco abbondantemente dentro i confini del rock, la personalità dei musicisti scelti dal Duca bianco per interpretare le sue canzoni ibrida fortemente la natura dell’LP con il jazz, dando un tocco molto arty a tutta l’opera. Tony Visconti, storico produttore di Bowie fin dal ’68, ha dichiarato che lui e David avevano deciso appositamente di evitare ogni cliché del rock’n’roll per Blackstar e che, adoperando una jazz band per suonare canzoni rock, il suono finale del disco avrebbe avuto un “sapore” particolare, dando una strana sensazione di rovesciamento. Cosa che, in effetti, accade puntualmente.
I testi sono cupi, introspettivi, rassegnati, talvolta anche arrabbiati, alla ricerca di una risposta che sembra sfuggire costantemente a Bowie, i cui versi sono stati letti da molti critici come un tentativo di aggrapparsi alla vita e al mistero che porta con sé, immaginando un cantautore proteso alla ricerca di un appiglio mentre affronta la parte conclusiva della sua vita e tutte le domande che porta con sé. Il canto dell’artista britannico però è dolce, malinconico: se le parole sono difficili, talvolta quasi oscure, dolorose, nella sua voce c’è una note più consolatoria, più conciliante.
A livello musicale, invece, Blackstar è un ritorno alla sperimentazione, all’ibridazione, al mescolamento di mille e una suggestioni diverse, un classico della poetica di Bowie. Sempre Visconti raccontava di come David, in quel 2015 in cui metteva giù tutto il disco, fosse immerso nell’ascolto di Kendrick Lamar – in particolare di To Pimp a Butterfly – e di Black Messiah di D’Angelo, confermando per l’ennesima volta l’enorme attenzione che il Duca bianco ha sempre riservato a ogni genere di novità musicale in circolazione.
L’album che esce da tutto questo processo creativo è, in definitiva, uno splendido manifesto della poetica di Bowie, in cui una sensibilità artistica delicata e incredibilmente colta si mescola con un gusto così pop da essere in grado di processare immediatamente una tendenza appena nata e innestarla nella propria grammatica espressiva. Blackstar potrebbe solo essere un disco di David Bowie ed è il commiato perfetto, la sintesi definitiva di tutto ciò che ha amato nella parte conclusiva della sua vita e della sua carriera ma anche una summa esatta di abbia sempre creato musica.