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Come cambia la pirateria nell’epoca dello streaming

A livello globale (lo studio è stato condotto su 13 fra i maggiori mercati discografici nazionali: USA, Canada, GB, Francia, Germania, Spagna, Italia, Svezia, Australia, Giappone, Corea del Sud, Brasile e Messico) nel 2016 il 71% degli utenti di internet fra i 16 e i 64 anni accede a contenuti musicali legalmente. I servizi streaming in abbonamento sono sempre più popolari, soprattutto fra i ragazzi con meno di 25 anni: un terzo della fascia 16-24 paga per un servizio di streaming in versione premium.

Sono dati incoraggianti. Dopo la profonda crisi conosciuta dal mercato discografico con l’inizio del nuovo millennio vediamo, ormai stabilmente da alcuni anni, l’affermarsi di un nuovo consumo di musica. Digitale e legalità possono stare insieme, tanto che lo streaming si è dimostrato capace di trainare una nuova ripresa dei ricavi nonostante il declino dei cosiddetti “supporti fisici”.

Il fatto che questo fenomeno si mostri con tanta più evidenza nelle abitudini delle nuove generazioni non fa che confermare che la battaglia contro la pirateria è innanzitutto una battaglia culturale. L’eredità di Napster è stata pesante: per almeno un decennio le persone si sono abituate all’idea che in fin dei conti, da qualche parte su internet, se volevano scaricare gratis un brano o un album potevano trovarlo comodamente. È anche vero che, dall’altro lato, l’esperienza di Napster ha fatto da apripista verso sistemi di condivisione di musica su digitale sempre più raffinati e – soprattutto – legali.

Quindici anni fa, per ascoltare l’ultimo album dei Red Hot Chili Peppers o dei Muse bisognava spendere almeno 15 euro per acquistare il disco. Oggi, pagando un abbonamento mensile persino più basso di quella cifra, è possibile accedere a cataloghi di musica online pressoché illimitati. Il cambiamento deve essere, appunto, di natura culturale: riabituare le persone all’idea che un prodotto – o, in questo caso, un servizio – si paga.

Tuttavia nel 2016 persiste ancora un problema che si chiama YouTube. I motivi sono almeno due. Da un lato l’ostacolo del value gap impedisce un equo compenso ai titolari dei diritti di copyright, con un danno economico di non poco conto. Dall’altro lato, se negli ultimi anni il fenomeno del download illegale è andato costantemente calando, un’altra forma di pirateria è purtroppo in aumento: lo stream ripping.

Esistono moltissimi programmi gratuiti online che a partire da un link di YouTube (o di qualsiasi piattaforma di video streaming) consentono di estrapolare e scaricare la traccia audio. Un terzo degli utenti di internet lo fa, e addirittura metà degli utenti nella fascia 16-24 anni. Considerando che YouTube rimane ancora oggi la principale piattaforma di accesso a contenuti musicali (l’82% dei suoi utenti lo usa anche per cercare musica), si può intuire di quali proporzioni sia il problema.

Questa prassi costituisce una vera e propria violazione del copyright, al pari del download illegale di contenuti coperti da diritti, senza contare che i file mp3 così ottenuti hanno una qualità audio molto scarsa rispetto all’originale. Sempre di più si rende necessaria una cooperazione attiva del colosso del video streaming per il risanamento del mercato discografico dopo più di un decennio di profondissima crisi.