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Come nasce un nuovo standard jazz?

All’interno degli stessi real book, poi, si può circoscrivere un nucleo di standard davvero “classici”, suonati e registrati in quantità incalcolabili, e un numero variabile di brani meno frequentati.

La situazione si può paragonare per certi versi a quella del canone di letture nei programmi scolastici, o al funzionamento delle lingue naturali: come in ogni linguaggio, è soltanto l’uso a conferire a un brano lo status, o meno, di standard. Viceversa, come succede per le letture di scuola, il canone si forma in fasi storiche definite, e gioca un ruolo non indifferente l’autorità stessa dei compositori e degli interpreti.

Risulta sempre difficile “bucare” il confine e innovare il repertorio introducendo nuovi standard, soprattutto se l’operazione è condotta a tavolino. Un esempio: il disco registrato da Herbie Hancock nel 1996, con il titolo programmatico The New Standard. Nell’album sono raccolti 11 brani pop, rock e R&B di successo, reinterpretati da un quintetto all star (con Michael Brecker, John Scofield, Dave Holland e Jack DeJohnette). Da Mercy Street di Peter Gabriel a All Apologies dei Nirvana, è difficile dire che qualcuna di queste canzoni sia diventata davvero uno standard — con l’eccezione di Norwegian Wood, che però, insieme a buona parte del catalogo dei Beatles, godeva già di una vasta tradizione di riadattamenti.

I Beatles, in effetti, sono stati la prima grande eccezione all’interno dei real book: i jazzisti tornavano ad attingere alla musica pop per la prima volta dopo la gloriosa stagione di Tin Pan Alley e delle canzoni di Broadway e di Hollywood, che formano il nucleo storico degli standard jazz.

Tra i successi dei Beatles entrati felicemente a far parte del vocabolario jazzistico — a parte i più celebri Yesterday e Michelle — spicca And I Love Her, interpretata di recente anche dal trio di Brad Mehldau in un disco lirico e bellissimo di Blues and Ballads, uscito quest’anno.

standard jazz

 

Oggi, nell’epoca d’oro di un jazz sempre più orgogliosamente ibrido, l’unica band pop — in senso molto lato — che può vantare una celebrità jazzistica paragonabile a quella dei Beatles sono i Radiohead, ultimamente riscoperti da alcuni dei jazzisti contemporanei più in vista. Anche qui in prima fila Brad Mehldau, sempre disinvolto a spaziare tra generi e influenze diverse: la sua interpretazione di Exit Music (For a Film) risale già al 1998. A suonare i Radiohead si diverte spesso e volentieri anche Robert Glasper, sia dal vivo sia in studio, anche in formazione acustica.

Resta da chiedersi, però, quanto questo tipo di operazioni incida realmente sul repertorio suonato. Il rischio è che non soltanto i Radiohead, ma anche intromissioni più audaci nel rock o nell’elettronica — tra cui si potrebbe citare la versione di Hangin’ Tree dei Queens of the Stone Age rifatta dal trio di Jeff Ballard o MmmHmm di Flying Lotus rifatta da Vijay Iyer — restino episodi isolati e strettamente personali, spesso con l’unico intento di attrarre almeno momentaneamente l’attenzione di ascoltatori non abituati al jazz — come ha detto apertamente Robert Glasper a proposito del suo album del 2014 Covered.

Quello che manca, a quanto sembra, sono gli standard composti direttamente da jazzisti. Dopo gli anni Sessanta, solo pochissimi nuovi brani sono stati codificati abbastanza da ritrovarsi stampati su un real book. Nei dischi e nelle performance è diventata sempre più rilevante la proporzione delle composizioni originali, mentre gli standard sono rimasti gli stessi di un tempo. È abbastanza raro che musicisti contemporanei suonino o includano in un disco brani composti da autori della propria epoca — cosa che, invece, avveniva abitualmente per i pezzi più famosi di Monk, Coltrane o Shorter.

Le ragioni sono molte. Angelika Beener ha affrontato la questione sul blog Nextbop interpellando alcuni artisti della scena contemporanea: secondo il trombettista Jeremy Pelt, si tratta di un problema di individualismo — in un ambiente sempre più competitivo, i musicisti sono concentrati a suonare la propria musica e hanno perso il senso della tradizione collettiva. Il chitarrista Mike Moreno, invece, chiama in causa i cambiamenti del mercato discografico: fino a qualche decennio fa le etichette imponevano agli artisti un ritmo di registrazioni tale per cui, inevitabilmente, gran parte del materiale non poteva essere originale.

Sempre Moreno aggiunge che molte composizioni contemporanee sono troppo difficili da imparare in poco tempo: «La maggior parte della musica scritta dalla mia generazione richiede un bel po’ di prove. E durante le prove non c’è il tempo di provare la tua musica, e poi la musica difficile di qualcun altro. Meglio ripiegare su uno standard che tutti conoscono, per rompere la monotonia di leggere ogni brano durante un concerto o una sessione di registrazione».

In fondo, tutti i vecchi standard non sono altro che canzoni con una melodia orecchiabile e facilmente memorizzabile. Forse è questo, semplicemente, l’aspetto che è stato trascurato (non per forza a torto) dai jazzisti contemporanei: si scrivono meno canzoni, di conseguenza ci sono meno brani si prestano a diventare standard. Ma non mancano eccezioni — un esempio fra tutti è Strasbourg St. Denis di Roy Hargrove, inclusa in Earfood del 2008, che non ha nulla da invidiare alle varie Cantaloupe Island o Watermelon Man. Senza dubbio, uno standard moderno con tutti i crismi.

Autore: Sebastian Bendinelli

Ho studiato basso elettrico in Cluster con Piero Orsini, che mi ha contagiato con la passione per la musica jazz. I miei ascolti musicali sono onnivori e disordinati: a parte il jazz (e la black music in generale), cerco di tenere un orecchio aperto anche sul mondo dell'indie e dell'elettronica.

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