Come suona il nuovo jazz a Milano
A trainare questa rinascita c’è una nuova generazione di musicisti, che senza farsi problemi a ibridare la propria musica ha finito per conquistare e influenzare il mainstream. Se ne possono ripercorrere le tappe a grandi linee: la colonna sonora di Birdman firmata da Antonio Sanchez; il quartetto di Donny McGaslin reclutato da David Bowie per registrare Blackstar; il successo commerciale del mix di R&B, hip hop e soul ridefinito dai vari Kendrick Lamar, Chance the Rapper, Frank Ocean e Anderson .Paak. Per non parlare di Barack Obama.
Insomma, sembra che ascoltare jazz sia tornato ad essere cool e alla moda, come non succedeva praticamente dagli anni Sessanta.
La nuova aria si respira anche a Milano, dove da una decina d’anni è in corso una profonda trasformazione della geografia musicale cittadina. Dimenticati i tempi del leggendario Capolinea (chiuso nel 1999), i grandi nomi internazionali restano perlopiù esclusiva del Blue Note (aperto nel 2003) o di rassegne teatrali come Aperitivo in Concerto al Manzoni — istituzioni ancora percepite come elitarie e legate a un’idea, dura a morire, di jazz come musica da snob upper class — mentre la spinta verso una maggiore popolarizzazione arriva soprattutto dai festival, che però finora non hanno avuto vita facile: il Milano Jazzin’ Festival, organizzato all’Arena dal 2009 al 2011, cercava di unire gli appassionati a un pubblico più pop, con cartelloni abbastanza eterogenei — poteva capitare di ascoltare Gary Burton o Jan Garbarek, ma anche Lenny Kravitz e i REM. Tanto che, alla fine, di jazz ha perso anche il nome, spostandosi all’Ippodromo come City Sound, prima di tramontare definitivamente, vittima di uno dei flagelli che rende tanto difficile l’organizzazione a Milano di un festival estivo di respiro internazionale, sul modello dei vari Glastonbury e Sziget: le proteste dei comitati di quartiere per il rumore.
Il 2016 si è chiuso invece con il felice esordio di Jazzmi, che ha provato a proporre una formula di festival autunnale, “diffuso”, artisticamente omogeneo ma attento ai gusti di un pubblico giovane — ospitando artisti come GoGo Penguin e Jonny Greenwood, e affiancando ai teatri location più fresche, come Santeria Social Club. L’esperimento — come l’analogo Jazz Re:Found di Torino — si è rivelato vincente: è ancora presto per immaginare anche a Milano un festival che regga il passo di istituzioni storiche come Umbria o Siena Jazz — vere e proprie mete di pellegrinaggio — ma qualcosa si muove nella direzione giusta.
È soprattutto dal basso, però, che la scena jazz cittadina dimostra una nuova vitalità: negli ultimi due anni si sono moltiplicati i luoghi e le occasioni in cui è possibile ascoltare musica live e jam session, in gran parte per merito dell’intraprendenza dei jazzisti più giovani, spesso studenti della Civica o del Conservatorio. C’è Area M, il circuito che — appoggiandosi ai locali e ai teatri della zona, dall’Osteria di Lambrate all’Auditorium Stefano Cerri di via Valvassori Peroni — dal 2015 cerca di plasmare Città Studi come un “quartiere del jazz”; c’è il circolo Masada, che organizza settimanalmente serate di altissimo livello, recuperando almeno in parte il ruolo che una volta era della Buca di San Vincenzo; ci sono poi il Bonaventura, il Bachelite, e una miriade di circoli, bar e locali più o meno grandi che propongono sempre più spesso musica jazz dal vivo.
Tra le realtà più interessanti merita di essere citato il Lume — Laboratorio Urbano Metropolitano, uno spazio autogestito vicino all’Università Statale — la cui serata jazz del mercoledì è diventata in poco più di un anno quasi un appuntamento tradizionale. “Come me, i ragazzi che hanno una grande potenzialità spesso non riescono nemmeno ad esprimerla per mancanza di opportunità,” mi ha spiegato Federico Calcagno, che studia clarinetto al biennio del Conservatorio e organizza la rassegna. “Lume Jazz nasce proprio per dare a studenti e ex studenti professionisti l’opportunità di esprimere la propria voce”.
La cripta di Lume per tre mercoledì al mese si riempie di ascoltatori, soprattutto studenti, e c’è un’atmosfera di autenticità che è difficile trovare altrove. Il suo successo ha portato anche alla nascita di altri progetti, come Conserere, un laboratorio di improvvisazione collettiva, che si tiene il lunedì ogni due settimane. “Così Lume si presenta come il luogo adatto alla nascita di avanguardie e sperimentazioni artistiche come questa, per adesso unica in tutta Milano”.
Foto via LUME laboratorio universitario metropolitano / Facebook
Antonio, studente di contrabbasso alla Civica, è tra i frequentatori abituali di Lume, “l’unico posto a Milano in cui mi è capitato di suonare, davanti ad una platea composta maggiormente di studenti, media di età che non va oltre i 22, che sono stati zitti e attenti e curiosi e che si sono divertiti per un’ora e mezza di concerto jazz, più tutta la jam annessa. Per uno che è abituato ad avere non più di una decina di ascoltatori attivi oltre alla folla che vuole solo bere e chiacchierare, questo è bellissimo”.
Quello che ancora manca, a Milano, è un vero e proprio jazz club come punto di ritrovo. “Non esiste più un club di jazz, come può essere stato il Capolinea, un posto in cui uno può andare qualsiasi sera e trovare sempre i gatti — the cats, come si chiamano fra loro i jazzisti afroamericani — che infiammano il palco”.
Su questo punto anche Federico concorda: “il jazz a Milano sta crescendo sempre di più, ma ancora non è paragonabile alle scene jazzistiche delle grandi città europee (Berlino, Parigi, Amsterdam, Copenaghen). Sono contento per la buona riuscita di un festival come Jazzmi, ma sono ancora insoddisfatto per l’incapacità dei pochi jazz club di coinvolgere i giovani promettenti. Nella maggior parte dei jazz club, il pubblico il più delle volte è formato da addetti ai lavori e, in generale, molti musicisti di Milano vivono in cerchie ristrette, senza interessarsi alle novità musicali, chiudendosi nel loro piccolo mondo”.
Si tratta insomma anche di un attrito generazionale — una “nuova guardia” che in parte si mescola e in parte scalpita per soppiantare la “vecchia” — che determinerà la forma del panorama jazzistico nei prossimi cinque, dieci anni. In questa fase di passaggio, è difficile prevedere quali realtà sapranno consolidarsi e quali si riveleranno effimere, ma di certo il pubblico per questa musica sembra destinato ad aumentare: in linea con quanto succede nel resto del mondo, il jazz milanese sarà sempre più diffuso, contaminato e libero — pienamente jazz, quindi.