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Gli anni '80 ricordati da chi non li ha vissuti

Gli Eighties sono i sintetizzatori col delay, le voci gutturali di cantanti come Morrissey e Dave Gahan e quelle squillanti di Cindy Lauper e Madonna; soprattutto sono il suono di rullante ultra-riverberato che accomuna tutte le produzioni di quell'epoca, dai Duran Duran ai tardi Clash.

Certo, rispetto al periodo precedente – quello della stagnazione economica dei '70, in Italia aggravato poi dagli anni bui del terrorismo di vario colore politico – il rinnovamento passava tangibile su tanti binari diversi: cinema, televisione, arti visive, pubblicità, politica. Il cosiddetto “riflusso” dalla militanza politica all'attenzione per la sfera privata e individuale portava in realtà con sé un mondo nuovo e coloratissimo, tutto da esplorare per quella generazione di ragazzi e ragazze nati negli anni del boom economico. Anche in musica, dopo la tabula rasa del punk era tempo di ricostruire e reinventare linguaggi al passo con i tempi: via libera all'utilizzo dei nuovi mezzi che la tecnologia offriva, come drum machine e synth, che avrebbero segnato il suono del decennio.

Come figlio dei tardi anni '80, ho conosciuto quel periodo e le sue suggestioni nel corso della decade successiva, a un livello intuitivo e pre-razionale: lo “vivevo” nelle musicassette di mia madre al cui suono mi svegliavo la domenica mattina alla casa al lago (con gruppi come Spandau Ballet e Frankie Goes to Hollywood); nei CD di Peter Gabriel e Billy Joel che si sentivano durante i viaggi in macchina; nelle colonne sonore dei film à la Top Gun che si vedevano il venerdì sera su Italia 1.

La musica doveva essere davvero un fenomenale aggregatore per i giovani di allora. Tutte le persone più grandi con cui mi capita di parlare della cultura giovanile degli Eighties ricordano un gesto molto preciso e molto particolare, che con tutta probabilità non significa nulla per un diciassettenne di oggi: quello di far scattare il tasto “Rec” della radio non appena passava il proprio pezzo preferito per registrarlo su cassetta, creando nel tempo delle artigianalissime compilation. La qualità audio non doveva essere delle migliori ma le cassette venivano condivise, duplicate, scambiate con gli amici in una sorta di fruizione collettiva della musica che oggi pare limitata ai soli concerti dal vivo.

Oppure, sembra strano doverlo spiegare ai millennial, c'era il fatto che se volevi ascoltare un album lo dovevi comprare. Personalmente ho avuto la fortuna di vivere la transizione della fruizione musicale dal possesso (di supporti fisici) all'accesso (a piattaforme di streaming). Ricordo bene il primo disco che comprai: era By the Way dei Red Hot Chili Peppers e doveva costare qualcosa come 16 euro al Saturn di Viale Certosa (oggi MediaWorld). Nel 2002 era ancora del tutto normale pensare di spendere una somma simile per un singolo acquisto musicale: a parte Napster, non c'erano molte alternative. Oggi con quegli stessi soldi posso pagarmi quasi due mesi di Spotify premium e avere accesso a un catalogo musicale pressoché universale (attenzione però: la qualità audio è nettamente inferiore – col vostro stereo fate un confronto dello stesso pezzo su CD e in streaming e giudicate voi la differenza).

Nick Hornby descrive molto bene questo punto in una prefazione al suo romanzo Alta Fedeltà: Ecco come si iniziava una collezione di dischi tra il 1940 e il 1990: compravi un album e per un po' dovevi accontentarti di quello. All'inizio alcune tracce ti piacevano più di altre, ma siccome ne avevi a disposizione otto, dieci o dodici al massimo (magari anche qualcuna in più se si trattava di un CD più recente) era impensabile ascoltare solo quelle che ti piacevano di più, così le ascoltavi tutte dall'inizio alla fine, ininterrottamente, fino a quando di quell'unico album non ti piaceva tutto. Un paio di settimane dopo ne compravi un altro. Dopo un anno avresti avuto quindici o venti dischi, dopo cinque saresti arrivato a duecento. Ecco come si iniziava una collezione di dischi nei primi anni Duemila: davi l'iPod a un amico, a una sorella o a un fratello maggiore, dicendogli “Caricamelo” e in un attimo ti trovavi con un migliaio di canzoni, molte delle quali non avresti mai nemmeno ascoltato.

Fa sorridere leggere oggi queste righe visto che i tempi sono cambiati ancora e in pochi, credo, ancora ascoltano musica sull'iPod. Ma penso anche al fatto che il primo cellulare che ho avuto mi consentiva solo di fare chiamate e mandare SMS, mentre con quello che uso oggi in dieci minuti posso anche organizzare un fine settimana a Londra. Viviamo in un periodo in cui i mezzi che entrano a far parte delle nostre abitudini quotidiane, magari dopo un'iniziale diffidenza, nel giro di cinque anni sono diventati obsoleti. E forse una delle grandi lezioni degli anni '80 che stiamo ancora metabolizzando è proprio quella: accettare gioiosamente il cambiamento dei tempi come stimolo per fare innovazione culturale e creare bellezza – musica in primis.

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