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Il jazz tornerà mai ad essere democratico?

Nella prima playlist almeno si trova esplicitata la tracklist — e ci sono comunque i grandi classici, da Oscar Peterson a Red Garland — nelle altre due sembra invece che siano riprodotte tracce jazz “neutre” qualsiasi, che potrebbero benissimo essere basi Aebersold o riempitivi senza autore.

Tutto questo la dice lunga sul radicamento dello stereotipo più immediatamente associato al jazz: che sia musica da sottofondo, da bar, essenzialmente tutta uguale, da ascoltare distrattamente mentre si fa altro. Un destino altrettanto infelice, su YouTube (ma anche tra le playlist di Spotify), è condiviso forse soltanto dalla musica ambient.

Strettamente connessa a questa prima immagine mentale è l’idea del jazz come genere prediletto di borghesi bianchi e snob: è la musica che si ascolta nei film di Woody Allen pieni di newyorkesi ricchi e annoiati, tanto per dirne una.

(Esistono anche altri stereotipi connessi al jazz, di segno diverso ma non meno artificiosi: il noir, i club fumosi, e così via).

Un vecchio blog satirico intitolato Stuff White People Like, ancora online, dedicava uno spazio del proprio catalogo alla “musica nera che i neri non ascoltano più”. Il post satirizza ferocemente l’atteggiamento di ostentazione poser di chi ascolta jazz solo per darsi un tono, senza sapere poi veramente di cosa si tratti:

 

Ogni mese, di tanto in tanto, un bianco metterà su del jazz e si verserà un bicchiere di vino o di scotch e si ripeterà quanto è piacevole. Poi si annoierà e guarderà la televisione o scriverà delle email ad altri bianchi per dire quanto è stato piacevole ascoltare del jazz a casa. “L’altra sera mi sono versato un bicchiere di Shiraz e ho messo Charlie Parker sul Bose. Era così rilassante, mi piacerebbe avere un caminetto.”

 

Ma il blog — estendendo il discorso anche al blues e all’hip hop “old school” — fa un’osservazione musicalmente rilevante: il processo di appropriazione culturale segnala ufficialmente la “morte”, ossia la fossilizzazione di un genere musicale, che smette di essere culturalmente vitale e diventa un oggetto da museo, seguendo una parabola inevitabile di nascita, sviluppo e tramonto. Il jazz avrebbe subito una sorta di gentrificazione musicale, passando dalle mani delle minoranze oppresse e degli strati sociali più svantaggiati a quelle delle élite dominanti.

Questo discorso merita in realtà alcune precisazioni. In primis: con vari gradi di accettazione, a molti bianchi il jazz è sempre piaciuto, ed è anche per merito dell’entusiasmo di critici e discografici bianchi che il genere ha potuto svilupparsi e diffondersi. Il processo non è stato indolore, e spesso è andato a discapito dei musicisti neri — scavalcati in successo e popolarità da formazioni bianche più facilmente digeribili per il grande pubblico (dalla Original Dixieland Jazz Band a Dave Brubeck) e umiliati nei locali in cui dovevano suonare per spettatori bianchi, entrando rigorosamente dalla porta di servizio.

Ma l’incontro culturale, a volte nella forma dell’appropriazione, altre in quella di una proficua collaborazione — basti citare i lavori di Miles Davis con Gil Evans — ha sempre fatto parte della storia del jazz. Allo stesso modo, bisogna sfumare le distinzioni di classe: non è mai esistito un jazz al 100% proletario, così come non esiste oggi un jazz completamente upper class. Le bettole di Storyville furono presto seguite dalle grandi sale da concerto; a New York c’erano le jam session notturne dei boppers al Minton’s Playhouse, ma anche — solo pochi anni prima — le orchestre swing che suonavano per un pubblico rigorosamente bianco al Cotton Club.

L’interpretazione schematica di un’evoluzione a senso unico, dal basso all’alto, dal povero al ricco, è in gran parte fuorviante, e rende conto più della percezione comune del jazz che del suo reale sviluppo socio-culturale.

Il percorso evolutivo del genere è stato tutt’altro che lineare. L’attuale “sistemazione” — che comprende quindi l’immaginario snob e quello da musica da ascensore delle playlist su YouTube — è cominciata soltanto tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, con un revival del bebop che tagliava i ponti con i due decenni precedenti, segnati dalle ibridazioni fusion e dallo sperimentalismo estremo (e politico) del free jazz, che aveva allontanato l’interesse del mainstream. A questo revival hanno contribuito notevolmente musicisti neri ben coscienti della propria identità — dai più bistrattati dalla critica, come Marsalis, a protagonisti assoluti della scena jazz contemporanea come Christian McBride.

È innegabile che il jazz abbia perso la vivacità e la rilevanza culturale che ha avuto dagli anni Trenta ai primi anni Sessanta, e difficilmente potrà mai riconquistarla — come ogni fenomeno storico irripetibile. Ma l’indice della sua musealizzazione (sempre comunque molto relativa — finché una musica resta rilevante e viva per qualcuno, non può definirsi morta) si potrebbe indicare non tanto nell’appropriazione bianca e borghese, quanto nella crescita del peso della scolarizzazione musicale.

Sempre più mediato da scuole e conservatori, il jazz contemporaneo vede da un lato la crescita esponenziale del livello tecnico degli esecutori, dall’altro una sorta di sclerotizzazione, a metà tra la riproposizione stanca degli stilemi del passato e un ripiegamento sempre più cerebrale. Il fenomeno non è sfuggito all’osservazione, per esempio, di Henry Threadgill, che spesso nelle sue interviste polemizza con l’insegnamento scolastico del jazz, colpevole, a suo dire, di collocare “fuori dal tempo” una musica che è sempre stata inseparabile dal sentire della generazione che l’ha prodotta.

Ma, che piaccia o no, il jazz oggi è (anche) questo: una virtuale coesistenza di tutti gli stili e i generi che hanno fatto la sua storia. L’importante è stare alla larga dalle playlist su YouTube.

Autore: Sebastian Bendinelli

Ho studiato basso elettrico in Cluster con Piero Orsini, che mi ha contagiato con la passione per la musica jazz. I miei ascolti musicali sono onnivori e disordinati: a parte il jazz (e la black music in generale), cerco di tenere un orecchio aperto anche sul mondo dell'indie e dell'elettronica.

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