Il “value gap” di YouTube: cos'è e perché è un problema per la discografia
Da tempo l'industria discografica ha colto la sfida della transizione digitale, un processo tutt'altro che concluso: ad oggi sono 43 milioni i brani dati in licenza dalle etichette discografiche a oltre 400 servizi di musica digitale a livello globale, creando un giro d'affari che da solo vale 6,9 miliardi di dollari.
Un equo ritorno economico per le case discografiche – major o indipendenti che siano – è fondamentale perché possano continuare a investire su un'offerta musicale variegata, sia sostenendo nella loro carriera gli artisti già affermati sia andando a scoprire e lanciare nuovi talenti sul mercato. In questi anni, persino in una fase di crisi del settore, gli investimenti sugli artisti sono rimasti uno degli asset irrinunciabili della discografia: complessivamente 20 miliardi di dollari dal 2009 a oggi.
Se con l'avvento dei servizi di streaming – dopo un decennio di "anarchia" di Napster e delle piattaforme P2P – il mondo della la musica digitale sta finalmente trovando un suo modello di business capace di generare revenue per etichette e artisti, non si può ancora dire che il comportamento di tutti gli operatori del mercato sia il medesimo.
Secondo i dati dell'Ifpi (International Federation of The Phonographic Industry) i servizi di streaming in abbonamento hanno complessivamente 41 milioni di utenti, cui si aggiungono circa 100 milioni di utenti delle versioni gratuite. Nel 2014 questo settore ha generato 1,6 miliardi di introiti per le case discografiche.
YouTube, che ancora oggi rimane il principale canale di accesso alla musica su digitale, conta oltre un miliardo di utenti attivi e l'anno scorso ha generato 619 milioni di dollari di entrate per le etichette: meno della metà di revenues rispetto allo streaming, a fronte di un numero di utenti sette volte maggiore. Ecco, in sintesi, cos'è quella discrepanza che gli osservatori del mercato discografico chiamano value gap.
Sorge lecita la domanda: YouTube non potrebbe pagare quanto le piattaforme di streaming? Il problema è che servizi come YouTube o anche SoundCloud (che conta sempre, ricordiamolo, quattro volte il numero di utenti di Spotify) non sono soggetti alle stesse leggi sul copyright. Poiché si tratta di semplici piattaforme di hosting possono beneficiare di esenzioni dalla legge sul diritto d'autore, a differenza di Spotify, Deezer e colleghi, che invece sono direttamente titolari della diffusione dei loro contenuti digitali.
Le esenzioni di responsabilità – conosciute anche come "safe harbours", porti sicuri – erano state introdotte con lo scopo di proteggere quei servizi di hosting realmente neutrali. Ma se vengono applicate a piattaforme che svolgono un ruolo attivo nella distribuzione e promozione dei contenuti, allora si crea una forma di concorrenza sleale.
La "neutralità" di YouTube e SoundCloud permette loro di rifiutarsi di negoziare le licenze di utilizzo dei brani. Ai titolari dei diritti rimangono poche alternative: chiedere la rimozione dei contenuti protetti da copyright, accettare revenues molto ridotte oppure intraprendere lunghe e costose battaglie legali.
Il problema del "value gap" è tutt'altro che secondario nella crisi dell'industria discografica: assieme alla pirateria, è la ragione per cui alla maggiore possibilità di scelta per il consumatore non corrisponde una crescita sostenibile delle entrate delle etichette. Basta fare due conti per capire che se YouTube generasse le stesse revenues dello streaming, in proporzione al numero di utenti, il mercato discografico potrebbe uscire dalla crisi anche domani mattina.