Jazzheads: Tony Allen, la lunga vita del maestro dell’afrobeat
Dietro quella rottura c’erano ragioni di ordine personale e professionale, legate all’autoritarismo di Fela e alla suddivisione delle royalties. Ma anche una divergenza di fondo nella concezione della musica e dell’attivismo politico, che per Fela Kuti erano inscindibili.
«Detesto le canzoni militanti. Non è la mia cosa – ha detto Tony Allen in un’intervista recente – «Su quello che Fela stava sfidando, aveva ragione. Ma era troppo diretto ed è per questo che ha ricevuto tutta questa merda. C’erano troppi arresti, troppi bombardamenti. Sei un musicista — perché ti lasci pestare tutto il tempo in questo modo?»
Nel 1977 i militari nigeriani avevano attaccato e raso al suolo la “Kalakuta Republic”, ossia l’edificio che Fela Kuti aveva provocatoriamente dichiarato indipendente sette anni prima, e in cui aveva stabilito una sorta di comune. La madre del musicista sarebbe morta poco dopo, per i pestaggi subiti durante il raid.
Oggi Tony Allen ha 77 anni — Fela, morto esattamente due decadi fa, ne avrebbe avuti 79 — e il suo ultimo disco, uscito quest’anno per l’etichetta Blue Note, è un tributo ai Jazz Messengers di Art Blakey, con due versioni freschissime di Moanin’ e A Night in Tunisia. Proprio l’abilità di amalgamare percussioni tradizionali, jazz e highlife — il genere musicale che andava per la maggiore in Nigeria e Ghana negli anni Sessanta — avevano convinto Fela Kuti a ingaggiare il giovane Allen, batterista autodidatta, nella propria band. Dalla loro collaborazione sarebbe nato l’afrobeat, che, semplificando, si potrebbe definire la versione afro di quello che negli Stati Uniti era il funk.
La tradizione vuole che, dopo l’uscita di Tony Allen dal gruppo, Fela sia stato costretto a usare due batteristi contemporaneamente per sopperire alla mancanza del suo virtuosismo con i poliritmi. Dopo la morte di Fela, la sua statura mitica si è in qualche modo trasferita sull’amico e compagno, visto come suo ultimo emissario in Terra, l’unico capace di attingere direttamente ai segreti della sua magia musicale. Anche per questo, l’anziano Tony Allen ha l’aspetto venerabile di uno sciamano, un gran maestro.
Così è apparso ai pochi fortunati che hanno avuto la tenacia di affrontare la pioggia e l’umidità dell’Orto Botanico di Brera, il 17 giugno scorso, per vederlo comparire dietro la batteria, ultimo della band, con camicia a fiori, cappellino e occhiali scuri a notte fonda.
Foto via Area M / Facebook
Nel 2014 è uscito Film of Life, il suo decimo album in studio, che già a partire dal titolo vuole essere una sorta di auto-biografia musicale, un disco denso e maturo di afrobeat contemporaneo — in cui è ben presente la lezione di Fela Kuti, ma si fa tesoro delle incursioni praticate da Tony Allen in altri generi musicali da vent’anni a questa parte. Ci sono il jazz, il dub, l’elettronica, il pop — una miscela che Allen stesso preferisce definire afrofunk, a marcare l’evoluzione dagli Settanta.
«Le persone volevano che suonassi il tipo di canzoni che suonavo con Fela, ma quello stile era scomparso. Fela era Fela; era un genio e il suo stile dovrebbe essere lasciato in pace».
La rinascita di Tony Allen sulla scena musicale contemporanea è avvenuta anche grazie all’amicizia e alla prolifica collaborazione con Damon Albarn, con cui ha dato vita a un gran numero di progetti, tra cui i super-gruppi The Good, The Bad & The Queen e Rocket Juice & the Moon. Tra jam session elettroniche di Elita e masterclass per Boiler Room, Tony Allen non è soltanto il custode di un sapere del passato, ma un protagonista rispettato del presente. Se è vero che siamo di fronte a una rinascita dell’afrofuturismo, come estetica e come corrente artistica, ci sono buone ragioni per credere che anche l’afrobeat manterrà un posto centrale nella cultura musicale dei prossimi decenni. E sarà soprattutto grazie a Tony Allen.