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Risorgere in musica: una fenice chiamata Linkin Park

I Linkin Park sono tornati con Emptiness Machine, una canzone più Linkin Park che mai eppure, per forza di cose, anche molto diversa rispetto al passato. Sette anni dopo la tragica sorte che ha colpito Chester Bennington, storico cantante del gruppo, la band si è ricompattata ed è tornata sulle scene compiendo la più coraggiosa delle scelte: proseguire con una nuova voce ma senza sostituire – il peraltro insostituibile – Chester.

Ci sono eventi, nel corso dell’esistenza di una band, da cui non si può tornare indietro e la dipartita terrena di un componente, spesso e volentieri, può mettere la parola fine a una delicata alchimia creativa. Talvolta è il gruppo stesso a sfaldarsi e sparire per sempre, altre è una formazione a spaccarsi per poi proseguire con altri effettivi, altre ancora si resta insieme ma si chiude un capitolo e si cerca di ripartire da zero, magari cambiando anche nome e genere. I Linkin Park si sono presi più di un lustro di tempo per realizzare, accettare e metabolizzare l’addio di Chester, perdendosi anche dei pezzi per strada lungo il complesso percorso di risalita (Rob Bourdon, il batterista originale, ha preferito rimanere fermo e non tornare col gruppo).

Tuttavia, l’impulso di proseguire quel viaggio, diventato così grande, famoso e amato anche grazie allo stesso Bennington, ha avuto la meglio. Restava però l’insormontabile problema di capire come muoversi rispetto all’eventuale ingresso di una nuova voce nel gruppo, operazione delicatissima che avrebbe esposto la nuova recluta a un inevitabile confronto col passato, con la possibilità di venire rifiutata senza appello dai fan. E poi c’era l’ancor più rilevante questione artistica: meglio un emulo di Chester che possa restituire ai brani quasi lo stesso sapore che gli dava lui oppure meglio cercare qualcuno di completamente differente, con altre qualità e caratteristiche?

La soluzione è stata una sorpresa assoluta perché la scelta di Emily Armstrong, vocalist donna ma dallo stile non così distante da quello del compianto cantante storico, è stata audace eppure geniale. Il confronto necessariamente impari col suo illustre predecessore è molto difficile da mettere in piedi – il che ripara lei da paragoni 1:1 impossibili da sostenere per chiunque e le consente di essere liberamente sé stessa – e, tuttavia, il clima generale delle canzoni rimane inalterato perché, pur muovendosi su timbro e tonalità differenti, l’aggressività della voce, l’alternanza tra canto pulito e graffiato rimangono clamorosamente fedeli all’originale.

In The Emptiness Machine tutto questo emerge perfettamente: chi conosce il lavoro dei LP da anni ritrova tanti tratti caratteristici del loro processo compositivo come l’alternanza piano/forte, la melodia vocale del ritornello e delle strofe, i muri di chitarra (ma anche i riff), la scrittura dolente, esistenzialista e introspettiva, i momenti in cui le voci rimangono nude sopra un letto ritmico, la batteria suonata in analogico che però suona come una drum machine. Non un pezzo innovativo, dunque, ma piacevolmente in continuità con tutto quel che hanno prodotto negli ultimi venticinque anni (dove, pure, hanno trovato spazio canzoni estremamente difformi dallo stampino “classico” del gruppo che, qui, invece, è decisamente matrice della canzone).

La Armstrong entra sommessamente nel corso del primo ritornello e si prende la scena con la seconda strofa e con il secondo ritornello, dove fa sfoggio tanto della sua padronanza del canto pulito quanto dello scream che ovviamente richiama quello di Bennington ma, in realtà, non può non ricordare Courtney Love e tutta la sua fitta schiera di emulatrici. La cantante 38enne è perfettamente a suo agio nel clima teso, insofferente e aggressivo del brano che, in questo senso, richiama parecchio il mondo costruito dai primi due dischi, pur avendo una “confezione” finale meno schiacciata sugli stereotipi del crossover/numetal e più orientata a un “semplice” genere fusion figlio di musica elettronica e rock duro che, quindi, lo rendono probabilmente più affine al terzo, Minutes to Midnight, primo disco “divergente” dagli stereotipi di genere della produzione del gruppo.

In ogni caso, The Emptiness Machine è una canzone dal sapore vintage, che sembra riportare l’età della band indietro di quindici anni buoni pur avendo un fortissimo elemento di rottura col passato nella voce di Emily Armstrong. Per adesso, l’operazione “resurrezione” è perfettamente riuscita e la fenice riemersa dalle ceneri dei Linkin Park è decisamente un’evoluzione lineare rispetto al passato del complesso, allo stesso tempo uguale e diversa rispetto a ciò che era quando, sul palco, c’era l’indimenticabile Chester Bennington.

Autore: Giorgio Crico

Milanese doc, sposato con Alice, giornalista ma non del tutto per colpa sua. Appassionato di musica e abile scordatore di bassi e chitarre. ascolta e viene incuriosito da tutto nonostante un passato da integralista del rock più ruvido.