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Perché tutti dovremmo leggere Lester Bangs

Leslie Conway Bangs nasce in California nel 1948. Non poteva succedere in un momento e in un luogo migliori: nel 1969 Lester ha 21 anni, si è visto passare davanti agli occhi – e alle orecchie – il meglio della nuova musica giovanile e della controcultura anni Sessanta e ha già una carriera avviata da giornalista musicale presso Rolling Stone, dal quale verrà cacciato dopo pochi anni per l'eccessiva esuberanza dei suoi scritti.

Nonostante fosse proprio il periodo in cui innumerevoli leggende del rock pubblicavano i loro primi album, il suo gusto musicale rimarrà sempre in qualche modo legato al rock and roll e al garage rock della prima metà degli anni '60: gruppi come Sam The Sham & The Pharaohs (quelli di Wooly Bully) e i Troggs (quelli di Wild Thing) saranno costantemente i suoi punti di riferimento per distinguere il "vero" rock da quello scimmiottato o – ancora peggio – commerciale.

Per questo i suoi gusti musicali seguirono sempre un filo rosso estremamente coerente: dal garage rock passò all'ammirazione smodata per i Velvet Underground e Lou Reed – col quale mantenne sempre un bonario rapporto di amore-odio, anche a livello personale – quindi si entusiasmò per gruppi proto-punk come The Stooges e MC5 e infine salutò l'avvento del punk – The Clash in primis – come necessario ritorno al vitalismo dirompente di quella musica che aveva amato da adolescente.

Cream, Rolling Stones, Deep Purple, Led Zeppelin, David Bowie: nessuno oggi si sognerebbe di liquidare questi mostri sacri con poche parole cariche di disprezzo. Già allora questi artisti erano idolatrati e divinizzati dai fan, ed è proprio questo ciò che non andava giù a Lester Bangs. Il rock dovrebbe essere libertà e festa: guai a creare autorità o nuovi santi. Un'espressione come "Clapton is God" – lo slogan che veniva scritto ovunque dai giovani della seconda metà degli anni '60 – doveva essere per Bangs l'esatta antitesi dell'originale spirito libertario del rock.

Lisergico come Hunter S. Thompson e cinico come Charles Bukowski, Bangs univa una profonda passione per la musica a ottime doti di scrittura, elevando un genere freddamente giornalistico come quello della recensione a forma letteraria autobiografica sulla scia di certi stilemi tipici del movimento beat.

«L'autobiografia più autentica che potrei mai scrivere – si legge nella sua antologia di articoli Guida ragionevole al frastuono più atroce – si svolgerebbe per la maggior parte al bancone di un negozio di dischi, davanti a un jukebox, al volante di una macchina con l'autoradio che mi dà una sferzata, nelle ore insonni dopo mezzanotte passate da solo con le cuffie nelle orecchie e vasti ponti panoramici e cori angelici nel cervello, o semplicemente seduto con comodo, fumato o no, nel vasto grembo benigno dell'America, battendo il ritmo sui fianchi, felice».

Per Bangs la musica era vita, e la vita fluiva scandita ora dal ritmo di puliti arrangiamenti folk rock (come Van Morrison), ora da lancinanti inascoltabili cacofonie al limite della follia (come Metal Machine Music di Lou Reed, del quale fu uno dei pochi critici a parlare in toni entusiastici). Vita e musica: una esisteva in funzione dell'altra, ed è per questo che la pagina di Bangs è costantemente animata da momenti di vita vissuta.

Che fosse una dose di anfetamina, una storia d'amore tormentata, un ricordo dell'adolescenza, la vita entrava sempre di prepotenza nella sua scrittura. Per ricordarci una lezione fondamentale: non si può ascoltare un album con il distacco di un tecnico di laboratorio; la musica deve essere amata e "vissuta" con tutta la profondità del sentire umano. Se questo non accade, allora, bisogna cercare ardentemente il prossimo sballo sonoro. E gettare nel cestino i dischi dei Led Zeppelin.

 

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