Il ritorno dei Cure: Songs of a Lost World
Sedici anni dopo il loro ultimo album in studio, a quarantacinque anni esatti dal loro debutto discografico, i Cure hanno fatto uscire il loro quattordicesimo disco di inediti, Songs of a Lost World. Inatteso, inaspettato ma non per questo sgradito – anzi, tutt’altro – il ritorno in grande stile della band britannica con materiale inedito (ma, come vedremo, non “nuovo” in senso pieno) ha sorpreso il pubblico generalista ma anche i fan, specialmente in considerazione del fatto che Robert Smith, leader e frontman del gruppo, parli del nuovo album dal 2019… senza che ve ne fosse mai traccia, almeno fino a due mesi fa.
Ora, invece, Songs of a Lost World è finalmente disponibile nella sua interezza dopo essere stato anticipato dai singoli Alone e A Fragile Thing, usciti rispettivamente a fine settembre e inizio ottobre. Ed è un disco così dissonante, così diverso e così in controtendenza rispetto a quel che si sente oggi che ha una freschezza del tutto inaspettata… un disco insospettabilmente necessario, verrebbe da dire. Il pubblico lo ha peraltro capito, premiandolo oltre ogni previsione anche sotto il profilo delle vendite (persino qui, in Italia, dove ha esordito nella classifica degli album direttamente al secondo posto).
Intendiamoci: il mondo sonoro è inconfondibilmente quello dei Cure. Da un punto di vista stilistico e strettamente musicale, Songs of a Lost World è incontrovertibilmente, fortissimamente figlio della creatività di Robert Smith che, non a caso, ne firma ogni nota e ogni parola, inclusi gli arrangiamenti collettivi. Ed è un lavoro che parla probabilmente più direttamente con la prima metà della carriera del gruppo, quella definita dark o goth, in cui le sonorità erano oscure, cupe, inquietanti e, a loro modo, sinistramente scintillanti. Tuttavia non mancano aperture melodiche, intelaiature di archi in maggiore e fraseggi più aperti, rassicuranti e – banalmente – allegri.
È peraltro curioso notare come, nonostante il mondo stia recuperando a piene mani i cliché musicali degli anni 80 da quasi un decennio, con questo disco i Cure riportino in auge un’altra porzione dell’anima sonora di quel periodo che, indubbiamente, è stata meno oggetto del ritorno di fiamma che ha colpito tutto il mondo dei sintetizzatori e dintorni (ma non è stato ignorato da Dua Lipa, per esempio). Il nuovo disco è un florilegio di un particolare tipo di riverbero di chitarre – di cui proprio i Cure sono stati alfieri, assieme agli Smiths e a The Edge degli U2 – o di effetti caratteristici proprio del suono della band, come le abbondanti dosi di flanger che fanno capolino qua e là.
Infine, un’ulteriore motivo di interesse di questo disco – nonché il suo aspetto più divergente in assoluto rispetto a come si consuma abitualmente la musica di questi tempi – è la lunghezza media dei brani: la canzone più breve dura 4 minuti e 17 mentre ben tre pezzi eccedono i sei minuti ed Endsong, l’ultima traccia, va addirittura oltre i dieci minuti. Non a caso, si tratta di composizioni nate live e rifinite in tantissime jam session dal vivo prima di essere incise: più che canzoni, possiamo infatti parlare di suite che si allontanano dal classico brano pop da tre minuti incardinato nella ferrea struttura verso – ritornello – verso – ritornello – bridge – ritornello.
Indubbiamente, il pubblico odierno non è molto abituato a questo genere di forma musicale ma, probabilmente, anche per questa scelta così lontana dagli stereotipi e dai sentieri dell’abituale che l’ultima fatica dei Cure suona così interessante, nella sua diversità. Non c’è innovazione ma freschezza, non c’è grande accessibilità ma enorme classe, non ci sono cliché ma solo continuità stilistica con tutta l’opera precedente e la poetica dei Cure.
In estrema sintesi, Songs of a Lost World è talmente alieno rispetto a ciò che si sente oggi che è un disco di cui avevamo disperatamente bisogno… anche se non lo sapevamo.
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