La storia della musica in pillole: il post-punk (parte 1)
«La storia della musica in pillole» è una rubrica fissa in cui ripercorriamo, in una tappa per volta, un momento, un genere, un periodo, un movimento musicale che ha segnato l’evoluzione del pentagramma (e delle nostre vite, in fondo). Senza pretese di esaustività, senza ambizioni accademiche esagerate, questi nostri articoli intendono essere agili Bignami da cui ricavare qualche indizio d’ascolto o un minimo di curiosità per scoprire – o riscoprire – le tantissime sfumature musicali che hanno attraversato il globo dalle origini a oggi.
Dopo esserci già stati raccontando il fenomeno del britpop anni 90, torniamo ancora in Gran Bretagna per dedicarci a un altro momento della storia del pop e del rock in cui proprio il Regno Unito era the place to be, il posto dove essere. Siamo agli sgoccioli degli anni 70: un nuovo decennio è alle porte, il punk ha fatto sembrare tutti i grandi artisti degli anni 60 e dei primi 70 improvvisamente vecchissimi ma anch’esso è già cronaca dell’altro ieri. In uno scenario incerto ma pieno di potenzialità, inizia a farsi strada un nuovo approccio alla musica, quello elettronico: dopo un decennio abbondante di gestazione, sonorità più meccaniche sono pronte a rompere gli argini e penetrare finalmente nell’immaginario pop, soprattutto grazie alla progressiva affermazione dei Kraftwerk, gruppo tedesco che prende la lezione colta di Stockhausen – compositore d’avanguardia – e la rielabora ulteriormente, portandola a un livello più pop e immediato.
C’è anche un’altra suggestione che comincia a farsi strada nell’immaginario musicale mainstream, oltre a quello elettronico: la fascinazione per la musica che proviene dalle zone del mondo non occidentali, quindi tutto il globo a eccezione di America del nord ed Europa. La cosiddetta world music, insomma, che vivrà una stagione di grande splendore negli anni 80 per poi essere definitivamente inglobata nell’elenco di influenze ricorrenti degli artisti. Ritmi del folklore africano, sonorità mediorientali, melodie sino-giapponesi e chi più ne ha, più ne metta: dopo le suggestioni indiane degli anni 60, che hanno fatto un po’ da apripista, a fine anni 70 inizia una proliferazione sistematica delle suggestioni musicali percepite come “esotiche” dai musicisti occidentali, che appunto ne fanno parte integrante della loro grammatica espressiva.
Questi due nuovi “ingredienti” musicali sono pronti a irrompere su una scena artistica in fermento: il punk è durato per poco più di una stagione e ha lasciato terreno fertile per chiunque abbia voglia di ripartire a fare musica con quel tipo di atteggiamento che nei paesi anglosassoni riassumono con le espressioni DIY, do it yourself (fallo da te), e anyone can do it (chiunque può farlo). In pratica, il punk ha dimostrato che, se si ha qualcosa da dire, prendere una chitarra, un basso, una batteria e un microfono non è così fuori portata come può sembrare, che le persone che stanno su un palco non sono così diverse da quelle che stanno sotto.
Da qui, parte il viaggio di tanti artisti diversi che hanno fatto propria la spontaneità creativa che si respirava in quel momento e si sono decisi a cominciare un proprio percorso musicale. Tra questi, c’è chi ha fatto pienamente parte del movimento punk, chi se n’è a malapena accorto pur respirandone il clima e chi invece ha partecipato da semplice spettatore ma è andato anche oltre, allontanandosi ben presto da quello stile di musica. Tutte insieme, queste realtà differenti formano le varie anime del periodo musicale definito post-punk, appunto, un momento magmatico che non ha una bandiera unica e in cui convivono fianco a fianco tante ispirazioni e tanti generi differenti. La prima e sostanziale differenza con il punk è proprio questa: il punk è un genere specifico, il post-punk è più un periodo, un momento preciso in cui vari artisti hanno dato esiti anche molto diversi a livello stilistico, rispondendo però agli stessi stimoli di base. Del resto, lo stesso nome è estremamente generico: post-punk indica solo ciò che è venuto dopo il punk, senza dare riferimenti stilistici o musicali di sorta perché, appunto, è molto difficile accomunare tanta diversità sonora.
In questo magma in ebollizione da cui nascono tanti artisti diversi, oltre alla suggestione punk e alla fascinazione per il mondo dell’elettronica provocata dall’ascesa dei Kraftwerk, un altro autore emerge prepotentemente sulla scena musicale inglese e mondiale, influenzandone tantissimi altri, alcuni direttamente, altri indirettamente. Si tratta di Brian Eno, ex componente dei Roxy Music che si sta affermando in quegli anni come artista sperimentale solista (è l'inventore dell'ambient music) e come produttore per altri musicisti e autori che intendono provare a creare una musica nuova, fuori dagli schemi. Eno collaborerà ai tre album più innovativi e sperimentali di David Bowie usciti tra il 1976 e il 1978 per poi produrre soprattutto gli americani Talking Heads, contribuendo a forgiare il sound alla costruzione delle fondamenta della New Wave, il genere – stavolta sì – che nascerà subito dopo il post-punk.
L’elenco di esperienze musicali che possono essere ricondotte a questo momento storico è semplicemente infinito: si va da Siouxsie and the Banshees ai Wire passando per i Public Image Ltd, si possono citare artisti meno noti al grande pubblico come the Pop Group, Cabaret Voltaire, Magazine o Pere Ubu. I portabandiera più noti del periodo, però, sono evidentemente i Joy Division e i Talking Heads, seguiti a ruota dai (the) Cure. Infine, si possono citare all’interno di un discorso sul post-punk anche altri gruppi ancora, quali i Devo, i Gang of Four, the Slits, e the Fall.
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