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La storia della musica in pillole: il post-punk (parte 2)

«La storia della musica in pillole» è una rubrica fissa in cui ripercorriamo, in una tappa per volta, un momento, un genere, un periodo, un movimento musicale che ha segnato l’evoluzione del pentagramma (e delle nostre vite, in fondo). Senza pretese di esaustività, senza ambizioni accademiche esagerate, questi nostri articoli intendono essere agili Bignami da cui ricavare qualche indizio d’ascolto o un minimo di curiosità per scoprire – o riscoprire – le tantissime sfumature musicali che hanno attraversato il globo dalle origini a oggi.

[…proseguo dalla prima parte]


Tra tutte queste esperienze così diverse tra loro, può aver senso cominciare il discorso sulle band da chi è post-punk in senso squisitamente esperienziale, come i Siouxsee and the Banshees. La cantante Siouxsee e i suoi compagni di palcoscenico furono uno dei complessi che tennero a battesimo tutto il periodo: passata la prima sfuriata punk, di cui erano stati alfieri convinti (erano parte dell’entourage fisso dei Sex Pistols), i Banshees furono tra le prime realtà a spingersi oltre già a livello sonoro, distaccandosi dai brani veloci, ultra-distorti e violenti in stile primo punk per cercare altri orizzonti musicali, sperimentando a più non posso con le nuove sonorità disponibili e giocando con la forma-canzone, allontanandosi e riavvicinandosi a piacimento agli stilemi pop radiofonici. Sebbene siano tra gli esponenti più di spicco del gothic rock, identificarli in un genere è complicato perché la loro storia è lunga e variegata: il gruppo ha avuto una carriera durata oltre vent’anni, capace di attraversare tante stagioni differenti, appunto da quella punk a quella new wave passando per il dark, naturalmente il post-punk e, più in generale, il rock alternativo. Le realtà che hanno influenzato sono innumerevoli e lo stile musicale dei Banshees è stato citato come riferimento praticamente da tutti gli altri artisti che trovate nominati in questo articolo.

Come Siouxsee and the Banshees, anche i Public Image Ltd. sono indubbiamente una geminazione diretta del punk, se non altro perché hanno in John Lydon – detto anche Johnny Rotten, ex frontman dei Sex Pistols – il loro cantante. Ma non è solo una questione di continuità di persone: i PiL sono figli del punk anche a livello sonoro. Da lì hanno cominciato, sfruttando il punk come punto di partenza, la base su cui costruire di qualcosa di differente, che si allontanerà ampiamente dalle radici “sexpistolsesche” di Lydon per accogliere molte suggestioni diverse, a cominciare dalla fascinazione per il funk, il mondo del reggae e della musica giamaicana, sintomo di un chiaro amore per la world music più in generale che diverrà via via più visibile passando gli anni (e i dischi). In fasi più avanzate del loro percorso artistico, lo stile dei PiL si afferma come pienamente New Wave e la loro musica accoglie una rotondità pop e accessibile, perfettamente intonata con il clima di metà anni 80 a livello di sonorità e stile compositivo.

Altra esperienza che deve al periodo punk la propria origine, anche se piuttosto lontana da un punto di vista sonoro, sono ovviamente i Joy Division. La band di Manchester è una delle prime realtà dell’epoca a cercare una profonda contaminazione elettronica con cui ibridare un suono analogico tipico di un quartetto con basso, chitarra, voce e batteria. L’obiettivo era mettere insieme l’influenza della sperimentazione dei Kraftwerk e il rinnovato stile musicale di David Bowie, a quell’epoca in stretta collaborazione con Brian Eno e molto attivo sul fronte della ricerca musicale, elettronica e non solo. I Joy Division univano a questo mix anche uno stile lirico estremamente cupo direttamente figlio della poetica del cantante, Ian Curtis, e le influenze musicali di Siouxsie and the Banshees, band che stava virando decisamente verso quella che poi sarà definita musica goth o dark. Le ritmiche ossessive e i groove insistiti dei Banshees furono un punto di partenza netto secondo Peter Hook, bassista dei Joy Division prima e dei New Order poi, la nuova identità che la band assunse per proseguire il proprio percorso dopo la morte di Ian Curtis.

Se i Joy Division, i PiL e Siouxsee and the Bansees rappresentano alcune delle più rilevanti facce del post-punk, i Talking Heads sono una delle realtà che viene più facile collegare direttamente al periodo. Il loro momento di maggior prolificità artistica va dal 1977 al 1980, passando quindi dalla fase di maggior intensità del punk agli albori della New Wave, genere che contribuiranno a definire e in cui confluiranno anche diversi artisti che abbiamo citato. Esplosi a livello commerciale a metà anni 80 grazie allo splendore della New Wave, i Talking Heads si distinguono rispetto al panorama loro contemporaneo per via dell’approccio intellettuale e consapevolmente artistico alla composizione musicale, che li rende più simili a David Bowie che ai Joy Division o ai Cure, per citare due realtà a loro contemporanee. Non a caso, svilupparono un rapporto molto intenso con Brian Eno che produsse due loro dischi (More Songs About Buildings and Food, 1978, e Fear of Music, del 1979) e ne influenzò moltissimo un terzo, Remain In Light, del 1980. Le suggestioni da tutto il mondo che gli Heads introdussero nella loro musica sono impossibili da contare: accanto all’evidente influenza africana possiamo trovare anche melodie arabe, impulsi giamaicani, abbondantissime dosi di funk. La stratificazione sonora appresa negli anni di collaborazione con Eno esplose grazie alla passione di David Byrne, cantante e leader della band, per la world music, ormai una sorta di archivio dalle infinite risorse a cui i Talking Heads ricorrevano per i più minuti dettagli compositivi.

Per avere un quadro completo delle realtà più note emerse dal mondo post-punk, vanno sicuramente citati i (The) Cure, band che parte dall’humus post-punk primordiale e si sviluppa fino a diventare la realtà di riferimento della corrente musicale goth o dark che dir si voglia (la prima definizione è più internazionale, la seconda parola è più diffusa in Italia). Originariamente power trio formato da basso, chitarra e batteria, la band comincia a far musica con un’attitudine lineare, pur con una personalità propria già molto spiccata. Le canzoni sono inizialmente semplici e dirette, molto “leggere” come osserverà più tardi il cantante e leader del gruppo, Robert Smith: i Cure, infatti, uscirono piuttosto insoddisfatti dall’esperienza di registrazione del loro primo disco, Three Imaginary Boys, che pure presenta sonorità nettamente figlie di quel preciso momento. Il gruppo però voleva fare altro e ben presto le composizioni abbandonano il formato della canzone commerciale da tre minuti con una struttura riconoscibile del tipo strofa-ritornello-strofa-ritornello e si trasformano in suite decisamente più elaborate e complesse, molto influenzate dalla psichedelia anni 60, che mirano alla costruzione di mondi sonori cupi, inquietanti, ossessivi, incalzanti e misteriosi. Indubbiamente gotici, per rimanere in tema. Poi la band andrà ancora oltre, abbandonando l’anima più dark e psichedelica per ritrovare la forma-canzone e un’attitudine che, sbrigativamente, possiamo definire “più pop”, proseguendo il suo viaggio per i quattro decenni successivi.

Autore: Giorgio Crico

Milanese doc, sposato con Alice, giornalista ma non del tutto per colpa sua. Appassionato di musica e abile scordatore di bassi e chitarre. ascolta e viene incuriosito da tutto nonostante un passato da integralista del rock più ruvido.

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