La storia della musica in pillole: quella volta che i Rolling Stones andarono “in esilio”
«La storia della musica in pillole» è una rubrica fissa in cui ripercorriamo, in una tappa per volta, un momento, un genere, un periodo, un movimento musicale che ha segnato l’evoluzione del pentagramma (e delle nostre vite, in fondo). Senza pretese di esaustività, senza ambizioni accademiche esagerate, questi nostri articoli intendono essere agili Bignami da cui ricavare qualche indizio d’ascolto o un minimo di curiosità per scoprire – o riscoprire – le tantissime sfumature musicali che hanno attraversato il globo dalle origini a oggi.
Negli anni 60, l’epoca della swinging London, dei Beatles e dei Rolling Stones, la Gran Bretagna conobbe un momento di estremo splendore musicale, creativo e culturale. Tra tutti questi aspetti, non va dimenticato anche quello economico, più che notevole: grazie ai proventi ricavati in tutto il mondo a causa della vendita dei dischi prodotti in UK da artisti locali, il Paese trovò una fonte di introiti clamorosa e abbondante che ne aiutò abbondantemente la ricostruzione e il rilancio dopo gli strascichi della Seconda Guerra Mondiale. Non a caso, nel 1965 i Beatles ricevettero il cavalierato nell’Ordine dell’Impero Britannico per il loro contributo rimarchevole all’economia nazionale.
Se la vendita dei dischi realizzati dagli artisti britannici fu una voce fondamentale per il risanamento finanziario del Regno Unito, l’altra faccia della medaglia fu il trattamento fiscale riservato agli artisti: in base ai guadagni fatti registrare, i musicisti venivano collocati in diverse fasce di reddito alle quali corrispondevano diverse aliquote fiscali. Nel caso delle realtà di maggior successo, l’aliquota corrispondente poteva salire fino a un pesantissimo 93%: i Beatles e i Rolling Stones, tra gli altri, si trovarono a dover fare i conti con questa tassazione altissima, che teneva entrambi i gruppi sul filo del rasoio economico nonostante la loro fama interplanetaria e la mole mastodontica di dischi venduti.
Se i Fab Four di Liverpool reagirono con la consueta ironia graffiante che si trova soprattutto nel testo della canzone Taxman del 1966 (di cui abbiamo parlato anche noi qui), gli Stones applicarono il piano B: la fuga. Battute a parte, la band – consigliata dai propri avvocati – lasciò l’Inghilterra nella primavera del 1971 tra un versamento fiscale e l’altro, prima che il governo quantificasse l’importo che il gruppo avrebbe dovuto all’erario statale con le tasse successive. Mentre Mick Jagger stabilì la propria casa-base a Parigi con la neo-moglie Bianca, gli altri membri degli Stones migrarono tutti verso il sud della Francia.
Villa Nellcôte, in particolare, divenne la base operativa della band durante il periodo francese: affittato dal chitarrista Keith Richards, l’enorme edificio si trasformò nel “tempio del divertimento personale” del musicista di Dartford, all’epoca con abitudini quotidiane decisamente sopra le righe e incarnazione perfetta del motto drugs, sex and rock’n’roll (per usare un eufemismo). Archiviata la luna di miele di Mick Jagger, con l’arrivo nella vicina Villefranche del celebre studio mobile di registrazione degli Stones, il 7 giugno si aprirono ufficialmente i lavori di realizzazione di quello che sarebbe diventato il successivo album di studio della band, Exile on Main Street, oggi considerato come uno dei migliori lavori in assoluto del complesso. Naturalmente, prima di decidere di usare proprio Nellcôte come sala d’incisione, gli Stones passarono in rassegna per un mese una miriade di altre location possibili senza trovare mai un accordo su nessuna. «Ovviamente, a nessuno piaceva niente. Hanno buttato un mese per poi decidere di registrare in casa di Keith. Tipico degli Stones» ha commentato a riguardo Jerry Pompili, all’epoca road manager del gruppo. In realtà, una piccola parte del materiale che sarebbe confluito nel disco era già stato inciso (anche anni interi) prima del trasferimento in Francia del gruppo ma gran parte delle canzoni vennero effettivamente registrate per la prima volta durante il periodo di lavoro a Nellcôte: molto di qual lavoro si può ascoltare anche adesso all’interno del risultato finale, un doppio album da diciotto tracce.
Sebbene Exile on Main Street sia uno dei capolavori degli Stones, a livello mitologico la sua realizzazione rivaleggia ampiamente con l’esito artistico: le sessioni di registrazione della band partivano all’imbrunire e si protraevano per tutta la notte, fino alle tre o alle quattro del mattino. La villa divenne l’epicentro di un via vai infinito di personalità celebri come: William S. Burroughs, Terry Southern, Gram Parsons o John Lennon e si può tranquillamente dire che lo stile di vita interno alla villa avesse tanti pregi ma certamente non quello della morigeratezza. Tra il timore crescente di un controllo della polizia, tra amici e vari esponenti dell’entourage degli Stones sempre meno in possesso della facoltà di intendere e volere via via che i giorni passavano (ad alcuni fu anche chiesto di andar via per provare a restaurare un clima più normale all’interno di quello che in teoria era anche un ambiente di lavoro), le sessioni di registrazione sviluppavano il loro irregolare percorso cambiando gli effettivi che partecipavano alla fase creativa praticamente ogni notte.
Mick Jagger appariva solo saltuariamente come lo stesso Richards, non sempre in grado di suonare, e Bill Wyman, uno dei più “regolari” del gruppo come forma mentis, ha confessato di aver patito molto quella situazione, rivelando: «Non tutti erano sempre presenti. Questo, per me, era fonte di una delle frustrazioni più grandi, in quel periodo». Di fatto, il bassista boicottò gran parte delle sessioni notturne. Anche Charlie Watts, meno festaiolo di altri membri del gruppo, non ha fatto spesso parte di quelle jam session. Nel raccontare quel periodo Wyman divide gli Stones in due “fazioni” che hanno vissuto in maniera diversa l’esperienza in Costa Azzurra: i tre meno presenti e più desiderosi di avere una tabella di marcia precisa (lui stesso, Watts e Jagger) e i due più inclini all’improvvisazione e meno propensi alla pianificazione (Richards e Taylor, supportati dal produttore Jimmy Miller, da un tecnico del suono e da altri loro amici musicisti arrivati in Francia per incidere le varie parti musicali realizzate con strumenti che i normali componenti degli Stones non suonavano). Il batterista Watts, dal canto suo, ha raccontato: «Molto di Exile è stato fatto nel modo in cui lavora Keith, che è: suonare un pezzo venti volte, lasciarlo "marinare" e suonarlo altre venti. Lui sa cosa preferisce ma è anche molto vago. Keith è un personaggio eccentrico e molto bohémien, davvero».
Con il passare dei mesi, gli occupanti della villa tornarono gradualmente alle loro case finché anche i due padroni di casa, Keith Richards e la compagna Anita Pallenberg, decisero di lasciare la Francia. Gli Stones completarono il doppio album a Los Angeles, componendo un paio di canzoni ex novo da aggiungere a quelle ideate in Costa Azzurra che, peraltro, vennero in gran parte rielaborate e riprodotte da capo. Se la fase di scrittura più magmatica e creativa, caotica e spontanea si era svolta in Francia con Keith Richards come timoniere, la registrazione finale del disco con la sua produzione definitiva, messa a punto negli USA, ha avuto come architrave principale Mick Jagger, anche a causa di alcuni problemi personali del chitarrista che lo misero parzialmente fuori gioco, lasciando il controllo artistico nelle mani del cantante.
Il disco uscì a marzo del 1972, praticamente un anno dopo la decisione dei Rolling Stones di lasciare la Gran Bretagna per questioni finanziare, e contiene brani registrati nel 1969, nel 1970 e ovviamente nel 1971, a villa Nellcôte. Exile on Main Street è stato scelto dalla rivista Rolling Stone come quattordicesimo classificato tra i 500 migliori album della storia (versione 2020) ed è considerato uno degli apici massimi della fusione tra blues, folk e rock’n’roll, il tutto in puro stile Stones. Un capolavoro, insomma, realizzato in gran parte in esilio, lontano dall’ambiente tipico della band e in modo eterogeneo e non proprio ortodosso che però ha contribuito a donargli un’aura mitica che pochi altri dischi hanno. Come ricorda lo stesso Mick Jagger, Exile è il prodotto di «fuorilegge fuggiaschi che hanno usato il blues come arma contro il mondo, [mostrando] un sentimento di isolamento felice e sorridendo in faccia a un futuro sconosciuto e spaventoso».