Il fascino discreto del vinile: perché abbiamo riscoperto i 33 giri?
È una questione di qualità o una formalità?
Non ricordo più bene
- CCCP, Io sto bene, 1985
Per dirimere la questione prendiamo in prestito i versi di questa vecchia canzone dei CCCP (grazie Giovanni Lindo, come sempre): il ritorno in auge del vinile è una questione di qualità – leggi: migliori prestazioni audio rispetto ai formati digitali, dal cd allo streaming – oppure una “formalità”, una moda, insomma un fatto culturale?
Partiamo da alcuni dati. In Italia nel 2016, a fronte di un calo dell'8,2% dei cosiddetti “supporti fisici” nel loro complesso, il vinile ha registrato un imponente 52% di crescita rispetto al 2015, arrivando a ritagliarsi una rispettabile quota del 6% dell'intero mercato discografico nazionale (dati Fimi). Altrove, per esempio nel Regno Unito, dove ogni tanto per brevi periodi supera anche i download di brani da piattaforme digitali, questa controtendenza del “vecchio” 33 giri è persino più marcata.
Ci si aspetterebbe che di fronte a un settore di mercato così dinamico le fabbriche di vinili sbuchino ovunque come funghi. E invece non è così: paradossalmente la grande domanda di LP degli ultimi anni si scontra con un numero limitatissimo di aziende che li producono – ne sono rimaste poche decine in tutto il mondo, fra cui appena una in Italia (la Phono Press di Settala, nell'hinterland milanese, che ha visto i propri affari letteralmente lievitare) – e con macchinari spesso vecchi di quarant'anni (l'acquisto di macchine nuove è particolarmente oneroso). Comunque ciò non ha impedito a quel geniaccio di Jack White di aprire a Detroit una bellissima fabbrica di vinili, la Third Man Pressing, un paio di mesi fa. Guardate che meraviglia.
Il “calore” del sound analogico rispetto a quello digitale, la migliore dinamica, la migliore qualità audio: sono in larga misura luoghi comuni. Al netto del suo caratteristico fruscio, l'orecchio umano fa fatica a distinguere fra streaming e vinile, figuriamoci fra vinile e compact disc. I pregi del 33 giri semmai sono altri.
Prima di tutto – è innegabile – si tratta di un bell'oggetto e inoltre il grande formato permette di apprezzare al meglio il lavoro grafico. Ma soprattutto determina un importante primato culturale: chi acquista abitualmente i “supporti fisici” – e il vinile in particolare – guadagna una consapevolezza delle proprie abitudini di ascolto molto superiore a chi usa solo lo streaming o il download (per non parlare del download illegale). In un'epoca in cui tutti hanno possibilità di accesso ai brani musicali, il possesso della musica educa all'ascolto.
L'acquisto abituale di dischi in vinile, dunque, non ha nulla a che fare con la presunta superiorità audio dell'analogico ma piuttosto certifica uno status assiologico, un implicito giudizio di valore: dire per esempio "London Calling io ce l'ho in vinile" equivale a dire che, beh, per me quell'album dei Clash è veramente un classico.
Senza parlare del fatto che l'abitudine al vinile implica l'acquisto di impianti stereo che davvero migliorano la qualità dell'ascolto (rispetto alle pessime casse dei computer o alle cuffiette: ne abbiamo parlato nell'intervista a Stefano Barone), un ascoltatore consapevole è senz'altro prezioso per un mercato discografico in cui l'utente finale spesso si limita a cliccare play su playlist generiche fatte da qualcun altro.
Ed ecco che ritorniamo ai CCCP: in questo caso è la “formalità” – la moda del vinile – a recuperare, seppure indirettamente, una “qualità”, ossia un valore che dalla crisi della discografia dei primi anni 2000 per almeno un decennio era andato in qualche modo perdendosi. Quello che nasceva come un semplice revival del vintage ha determinato un vero mutamento culturale nelle coscienze degli appassionati di musica. E questo è sacrosanto.