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Vent’anni di American Idiot: l’ultima fiammata (pop?) punk targata Green Day

Il 2024 non è un anno come gli altri, per i Green Day. Il gruppo capitanato da Billie Joe Armstrong (voce e chitarra) e composto pure da Mike Dirnt (basso e cori) e Tré Cool (batteria) festeggia infatti ben trentaquattro anni di carriera discografica ma, soprattutto, i vent’anni di American Idiot e i trent’anni di Dookie, i loro due album più noti e influenti.

Poiché sarebbe doveroso parlare del disco del 1994, come da tradizione, rituffiamoci nel mondo di American Idiot.

Con il senno di poi che ci viene concesso dai vent’anni che ci separano da quest’album che, a suo modo, ha certamente segnato il rock mainstream degli anni 2000, oggi si scorge più o meno chiaramente come American Idiot chiuda un periodo durato idealmente un decennio in cui il punk è tornato a fare classifica un po’ in tutto il mondo fin dai lontanissimi tardi anni 70 degli esordi. Il punk non è del resto mai morto e ha continuato a sopravvivere di nascosto, rinnovandosi e rigenerandosi in maniera carsica, fino a trovare un humus culturale adatto a una nuova esplosione: gli USA di metà anni 90. È infatti nel 1994, durante il declino del grunge e l’epoca d’oro dell’hip-hop, che il punk riesplode a livello globale, conquistando per la prima volta anche il mercato americano.

Tra gli alfieri di questo revival ci sono ovviamente i Green Day (Dookie, ricordate?), i quali si trovano a essere protagonisti dei successivi dieci anni di rock mainstream. Nel settembre del 2004, quando esce American Idiot, non lo sa ancora nessuno ma sta per cominciare l’ultima, grande cavalcata del revival punk esploso dieci anni prima. Dietro l’angolo, infatti, c’è un altro revival strettamente imparentato, quello emo (ne abbiamo anche già parlato), pronto a soppiantarlo presso giovani e giovanissimi. In più, è già emersa parte di una nuova scena indie rock che imperverserà per tutto il decennio e, giusto qualche metro più in là, attendono il loro turno anche il metal-core e il post hardcore, altre tendenze musicali che domineranno la scena rock della seconda metà degli anni 2000.

Ma tempo al tempo: siamo ancora nell’agosto del 2004 e i Green Day sono appena tornati con un nuovo singolo dopo oltre tre anni di silenzio in cui sono uscite solo due compilation (non un buon segno, di solito), di cui una è addirittura un Greatest Hits (pessimo segno, di solito). Sarà che la band non si vede da un po’ a causa di dissidi e dissapori interni, sarà che l’ultimo album, Warning, ha venduto meno del previsto, sarà che il genere non va più di moda come a fine anni 90, sarà che a fine 2002 è uscita la notizia della perdita di tutto il materiale già registrato per il nuovo album… ma non ci sono grandi aspettative sul gruppo.

Tuttavia il nuovo pezzo, American Idiot, che precede un nuovo cd con lo stesso titolo, sembrerebbe avere il tiro dei giorni migliori. Per carità, quattro anni prima si diceva lo stesso anche di Minority e poi l’album non è andato come avrebbe dovuto… tuttavia c’è qualcosa di nuovo. La band si presenta con un look molto à la page, più dark e rétro che in precedenza, nonché omogeneo in modo inedito tra tutti e tre i componenti. Anche il suono sembra più potente rispetto agli ultimi lavori, la distorsione sembra essere tornata quella di metà anni 90. E poi c’è il testo: apertamente politico, irriverente e disallineato all’allora vigente amministrazione Bush. Insomma, sono chiaramente i Green Day ma c’è stato un evidente processo di revisione di stile e immagine, oltre a una rinfrescata musicale.

Nel frattempo, mentre la data di uscita dell’album – che segue di un mese il singolo omonimo – si avvicina, iniziano ad arrivare notizie dagli USA: American Idiot è un concept album! Anzi, no: è un disco sperimentale con due canzoni che durano dieci minuti l’una! Anzi, no: è una rock opera in stile Who, qualcosa che non si vede nel mainstream dagli anni 60 e 70! Pur non essendo davvero una rock opera fino in fondo, l’album dei Green Day è effettivamente un concept che racconta un’unica, composita storia con due brani inusitatamente lunghi. Ma soprattutto suona molto omogeneo eppure movimentato, alterna cavalcate furiose in cui emerge di più l’anima punk del gruppo a pezzi più d’atmosfera e, soprattutto, contiene almeno tre o quattro inni da stadio pronti a incendiare qualunque concerto al mondo. E poi, certo, ci sono quelle due suite lunghissime composte da vari movimenti che sono la seconda e la penultima traccia.

L’album dura un’oretta scarsa e i fan si accorgono immediatamente che ha il potenziale per essere un disco di successo… mentre il resto del mondo lo scopre a fine novembre, quando esce il secondo singolo dell’album, Boulevard of Broken Dreams. Lenta ballata struggente che non indugia su toni romantici ma sulla malinconia che deriva da delusione e disillusione mescolate tra loro, la canzone è un lento potente e coinvolgente che si rivela eccezionalmente radiofonico, diventando il singolo di maggior successo commerciale della storia della band.

Boulevard fa deflagrare definitivamente il disco che la contiene e lo sdogana presso ampie fasce di pubblico che non si sono mai interessate prima al punk o ai Green Day (e mai più lo faranno dopo, peraltro), gonfiando a dismisura la portata di American Idiot che, peraltro, ottiene nuovi rilanci grazie a Holiday e, soprattutto, a Wake Me Up When September Ends, altro lento – stavolta romantico e onirico, nonostante il testo agrodolce – che in radio spopola, diventando uno dei tormentoni dell’estate 2005 (e tuttora è un brano molto gettonato sui social lungo il corso del mese di settembre).

Con l’esaurimento del ciclo vitale di Wake Me Up, la lunga cavalcata di American Idiot, durata oltre un anno, si chiude: è il disco – in proporzione – di maggior successo della band (Dookie ha venduto più del doppio ma era un’altra epoca, pre-internet) ed è quello che ha consacrato definitivamente i Green Day come una realtà di primissimo piano del rock degli anni 90 e 2000.

Dopo American Idiot, dal 2006 in poi, il punk – per quanto nelle sue accezioni più pop – torna a sopravvivere in sordina, sopravvivendo negli ambiti alternativi e di nicchia mentre altri tipi di rock ne prendono il posto… anche se per poco, perché è proprio la musica fatta con chitarra distorta, basso e batteria che sembra gradualmente sparire dalle scene mentre il grande pubblico si nutre essenzialmente di pop, reggaeton, musica dance e, dalle nostre parti, una valanga di rap italiano prima e di musica indie/cantautorale poi.

Oggi i Green Day sono considerati una pietra miliare del rock americano mainstream, più ancora che degli alfieri del punk USA (cosa che, pure, tuttora sono nonostante i cinquant’anni suonati di cui parlano i documenti), ma il loro look è ancora quello del 2004 e, dal vivo, sono ancora tanti i pezzi di American Idiot presenti in scaletta. Anzi, in occasione del loro ultimo tour mondiale, il Saviors Tour, cominciato quest’anno e programmato per concludersi a luglio del prossimo, la band sta suonando integralmente il suo vecchio disco per celebrarne degnamente i vent’anni. Una decisione più che doverosa, effettivamente.

American Idiot Green Day

ClusterNote è il Magazine della Scuola di Musica Cluster di Milano.
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Autore: Giorgio Crico

Milanese doc, sposato con Alice, giornalista ma non del tutto per colpa sua. Appassionato di musica e abile scordatore di bassi e chitarre. ascolta e viene incuriosito da tutto nonostante un passato da integralista del rock più ruvido.