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Raccontare in poche parole la vita e l’esperienza professionale di Antonio Galbiati senza rischiare di non rendere loro la giustizia che meritano è semplicemente impossibile: la statura di Antonio ci costringe quindi a una spietatissima sintesi che, necessariamente, sarà incompleta ma un resoconto ben più esaustivo si può trovare a QUESTO LINK. Sardo, classe 1960, Antonio Galbiati ha studiato al Conservatorio di Cagliari e ha iniziato a comporre canzoni e suonare in tanti gruppi e band fin dagli anni dell’adolescenza. Nel 1986, dopo aver girato a lungo per il mondo, si stabilisce a Milano su suggerimento di Enzo Jannacci; nel capoluogo lombardo il lavoro come autore e vocalist diventa sempre più intenso, portandolo a ideare non solo canzoni ma anche jingle pubblicitari, sigle, musiche per il teatro e colonne sonore di ogni genere.

Nel 1997, scrive per Laura Pausini "In assenza di te" e, nel 2000, il singolo "Più che puoi", cantato da Ramazzotti e Cher. Negli anni seguenti lavora come autore prima per BMG Publishing e poi Universal; contemporaneamente, inizia a insegnare musica. Nel corso della sua strepitosa carriera, Antonio ha occasione di collaborare a vario titolo con un elenco sterminato di artisti tra cui: Placido Domingo, Backstreet Boys, Hailey Westenra, Russel Watson, Josh Groban (“Canto alla vita”), Neri per caso, Gerry Goffin, Allan Rich, Michael Jay, Mina, Giorgia, Annalisa, Alessandra Amoroso, Emma, Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Dirotta su Cuba, Anna Oxa, Adriano Celentano, Anna Tatangelo, Dario Fo, Zuzzurro e Gaspare, Cristina D'Avena. Come vocalist, ha cantato in vari spot radiofonici, ha fatto parte del coro di Mediaset, è stato vocal coach ad Amici e ha fondato il coro H’ppella per poi essere scelto per fare il corista ai Festival di Sanremo del 2018 e del 2019. Dall’anno scolastico 2022/2023, è diventato parte integrante del corpo docente di Cluster, dove è l’insegnante di Musica d’Insieme per band. Antonio ha gentilmente acconsentito a fare quattro chiacchiere con noi per raccontarci della sua meravigliosa carriera, della sua nuova avventura a Cluster e di cosa significhi per lui vivere di musica. Buona lettura!

Eccoci qui, Antonio, pronti per un bel viaggio!

Ci sono! Da dove cominciamo?

Se non mi prendo troppa libertà, io suggerirei di partire proprio dalle origini, dalle tue origini come musicista e amante della musica. Cosa ti ha colpito fin da piccolo del mondo del pentagramma e se c'è stato un momento in cui tu hai detto: “Non me ne frega niente del resto, la musica deve essere la mia vita!”

Allora… Quello che mi ha colpito della musica fin da bambino, al di là di tutte le cose che potremmo anche definire scontate (tipo la bellezza, per dirne una), è stata proprio la mia stessa interazione con la musica. È stata una scoperta, come quando, da piccoli, si guarda a lungo un’azione o un gesto e poi si scopre di saperlo riprodurre. Ho subito sviluppato un rapporto di questo tipo, con la musica: sentivo una melodia e poi tentavo di risuonarla sulla mia pianolina giocattolo. È stato una specie di amore a prima vista e quindi diciamo che, da subito, ho capito che la musica sarebbe stata la mia compagna della vita. Prima ancora di studiarla, io mi ero già innamorato di lei.

È curioso che tu ne abbia già parlato in questi termini, un po’ come se foste i due protagonisti di una storia d'amore, perché io volevo proprio chiederti – dopo averle dedicato un’intera carriera – che tipo di compagna sia stata e sia ancora, per te, la musica.

Magari io e la musica abbiamo anche avuto qualche screzio ma nell'arco dei miei tanti anni di interazione con lei – considera che ho iniziato a suonare a cinque anni e adesso ne ho sessantatré – ma mai per più di un paio di giorni. Certo, c’è stato qualche basso o qualche allontanamento ma poi, due giorni dopo, era già tutto passato, finito, dimenticato. Per me è stata una partner fantastica. E non si tratta solamente della musica che si fa quando si studia, quando si suona o si sta su un palco… È che io la vivo veramente quotidianamente, forse anche un po’ da nerd, se vogliamo, attaccandola a qualsiasi circostanza della mia vita, le resto sempre incollato… Anche mentre sono coi miei amici, magari. Siamo in un bar a bere una birra, sento la musica che scorre in sottofondo e tac! Eccomi suo prigioniero, ancora una volta.

Bellissimo essere così innamorati, dopo una carriera così densa! Ora sono inevitabilmente costretto a chiederti quale sia io il tuo segreto…

Ahahahahah! Sarebbe bello saperlo perché, conoscendolo, lo consiglierei a tutti! Normalmente, alla mia età si inizia ad avvicinare il momento in cui si deve andare in pensione… Penso ai miei amici o ai genitori delle compagne di scuola di mia figlia che mi dicono: “Sai Antonio, sono andato in pensione”… Ma come si fa, dico io? Io senza musica non riuscirei a vivere!

Ecco, guardando più approfonditamente al tuo rapporto con la musica, si nota subito che si è sviluppato attraverso due canali paralleli perché da un lato hai imparato a suonare tanti strumenti diversi ma, dall’altro, ti sei dedicato molto anche alla voce e al mondo delle armonie vocali. Volevo chiederti: cosa cambia nell’espressione musicale tra l’usare la propria voce o suonare uno strumento (che, alla fine, è una mediazione)?

Ah! Bellissima questione. Io non faccio la distinzione tra la voce e gli strumenti perché la voce, se vogliamo, è lo strumento. Ed è anzi l'unico strumento che ti permette la possibilità di esprimerti mettendo insieme musica e frasi, proprio in senso linguistico. Gli altri strumenti possono essere bellissimi, avere dei colori interessanti… ma non nessuno si può esprimere con delle parole. Quindi la voce ha questo valore aggiunto inestimabile. E, se ci pensi, la voce è uno strumento che fa parte di noi stessi. Se io fossi un chitarrista, potrei anche lasciare la mia chitarra nel momento in cui mi dovessi innamorare del suono di un’altra: se volessi, potrei andare in un negozio e comprare una Fender Stratocaster con cui sostituire la mia. E, dopo, comprarmi una Gibson nel momento in cui la Strato non mi soddisfi più. E quindi prendere anche un’Ibañez. E via così, all’infinito. Invece la voce è diversa, è nostra, è veramente unica.

Spesso, incontro persone che mi chiedono se si può migliorare la propria voce, intendendo invece la capacità di replicare la voce di un cantante che apprezzano. Pensiamo di nuovo alla chitarra: imitare il suono di un’altra chitarra si può, basta comprarsi quella stessa chitarra, lo stesso amplificatore e poi, più o meno, si può arrivare a quello stesso suono, se ci si sanno mettere le mani. Fare la stessa cosa con la voce non ha senso, è come volersi mascherare da qualcun altro. E, soprattutto, la voce è unica, ognuno ne ha una sola, irripetibile, il che la rende lo strumento. Poi è chiaro che, per esprimersi al meglio, ha bisogno di un altro strumento in quanto elemento monofonico e melodico, quindi non è in grado di avere una struttura armonica da sola. Io, quando ho cominciato a cantare, già mi accompagnavo alla chitarra o al piano, ovviando fin da subito all’inconveniente!

Rimarcando l’importanza e la bellezza che stanno nella peculiarità unica di ogni voce, mi dai il destro per farti porti un'ulteriore questione. Ormai da qualche anno, tutti sembrano parlare instancabilmente dell’autotune e degli effetti digitali con cui, oggi, va di moda ritoccare la voce. Che ne pensi di quest’uso massiccio dell’effettistica e del fatto che si rischia di nascondere la voce dell’interprete e rinunciare a quell’unicità di cui stavamo parlando?

Posso darti due risposte. La prima verte sul fatto che io sono sicuro che, spesso, l’autotune sia stato usato proprio per dare un effetto particolare a una frase musicale. Valga come esempio Believe, la famosissima canzone di Cher di ormai qualche anno fa, usato per dare a quella nota in particolare un riverbero metallico. Quando invece vediamo, come nell’ultimo Sanremo, una cosa come quella versione di Via del campo di De Andrè fatta con l'autotune, allora lì c'è qualcosa che non mi quadra perché è assolutamente decontestualizzato. Mi sembra che somigli molto a un tappeto che va steso per terra per coprire la polvere. Io capisco la tendenza, ovviamente. Ci sono sempre state, nella musica, e ci saranno sempre. Ma questo è un discorso diverso: mi sembra che la cognizione armonica di tanti che approcciano alla composizione e alla produzione sia insufficiente. Si sentono sempre di più dei pezzi molto armonici e molto poveri, armonicamente, perché non c’è più né la ricerca, né la capacità di svilupparli da quel punto di vista. Le canzoni mi sembrano un po’ come le facce di Instagram: tutte molto simili per via del fatto che tutti i ragazzini usano gli stessi tre filtri. Mi sembra che ci sia un appiattimento generale, eh, non solo nella musica. Poi le eccezioni vengono fuori e si notano, come all’Eurovision di qualche anno fa, quando si è presentato un cantante portoghese con una canzone voce e archi che faceva molto contrasto rispetto alla musica di gomma di tutti gli altri concorrenti. E poi ha vinto lui, infatti.

Tutto questo è anche frutto del fatto che i ragazzi di oggi sono protagonisti di un enorme cambiamento, anche sociale. Poi possiamo interpretarlo come vogliamo: che sia un arricchimento o un impoverimento, il cambiamento è sempre qualcosa di cui devi tenere conto, che impatta sulla vita. il fattore che oggi è venuto a mancare è l’aggregazione sociale, importantissima. Io ricordo che, da piccolo, mi sbucciavo le ginocchia mentre battevo le mani nella cantina in cui mio fratello suonava con il suo complessino. I ragazzi di oggi non hanno avuto la fortuna di conoscere le cantine, quelle in cui si andava a suonare. Oggi si fa musica in casa, da soli, col computer. E lo strumento viene dimenticato lì, in un angolo. Dunque è anche una questione sociale, non è solo un diverso approccio alla materia.

Ecco, proprio questo tema mi dà il la per una domanda successiva. Tu sei anche insegnante di Musica d’insieme, a Cluster. Mi puoi raccontare cosa succede, secondo te, quando dei musicisti smettono di suonare uno a fianco all’altro ma, finalmente, iniziano a suonare davvero “insieme”?

È davvero una bella magia perché c’è grande differenza – e sto cercando di spiegarlo anche ai miei ragazzi – tra suonare il proprio strumento con un computer o su una base, peggio ancora per i cantanti che cantano sulle basi e non sono più abituati all'idea che ci sia un pianista un chitarrista che li accompagni. Se ci si lascia guidare eccessivamente dal digitale, il fattore umano si perde. Si perde perché tutto quanto viene regolato dal computer. Poi, certo, siamo noi stessi a decidere di farlo regolare dal pc perché è molto più facile intonare la voce digitalmente dopo che hai cantato male invece di investire giorni e giorni e giorni per migliorare la tecnica vocale in modo da non doverla correggere, no? Questo è ovvio. Però, così facendo, viene meno la bellezza dell'insieme, che è l’unione di più cervelli. Il bello è proprio l'interazione che c’è tra un basso e una batteria, che non è una semplice addizione matematica. Poi, la musica ha anche un lato che è terribilmente matematico ma si tratta di una matematica elastica, che comprende anche quello che gli americani chiamano human feel. Se manca lo human feel, è finita.

Ti faccio un esempio. Prendi un’orchestra: se tutti gli archi fossero perfettamente intonati, non avresti l’effetto dell’ensemble. In un coro, se tutte le voci fossero intonate con l’autotune, sentiresti una sola voce. E anche bruttina. La cosa bella – e questa è la nostra unicità – è che se tu metti insieme cinque voci, e le fai cantare, ognuna di queste cinque voci, nella sua imperfezione, dà perfezione del coro.

Bellissimo.

La prima cosa che ho detto a tutti i miei allievi è stata: «Ragazzi, ricordatevi sempre che c'è un'enorme differenza fra cinque musicisti su un palco e una band di 5 elementi».

È “musica d'insieme”, lo dice la parola stessa: non sei lì a far vedere quel che sai fare, sei lì far le cose con gli altri. E la musica in collettivo parte da lì, dal saper ascoltare. È una forma d’educazione, prima di tutto.

Non ci avevo mai pensato prima ma è incredibilmente vero.

Nel corso della storia abbiamo avuto degli esempi pazzeschi di gruppi non particolarmente talentuosi a livello di singolo strumentista ma in grado di avere un’ensemble strepitosa. Valgano come esempio massimo i Beatles ma potrei fartene altre decine… Parliamo di persone che, se messe insieme, avevano un sound preciso che era solo loro. Succedeva anche tra due sole voci, pensiamo a Simon & Garfunkel: era la loro interazione a fare il miracolo.

Grazie, Antonio. Ti farei un'ultima domanda più spensierata, se vogliamo, riguardante la tua vita professionale d’autore: hai voglia di raccontarmi un'esperienza che hai trovato particolarmente godereccia? Non la più prestigiosa, non quella riuscita meglio ma proprio quella che t'ha fatto provare il proverbiale brivido lungo la schiena.

Di esperienze così, fortunatamente, me ne son capitate tante ma ce n’è una che ricordo con particolare piacere. Non ero nemmeno su un palco, si trattava “solamente” della presentazione di un disco nel quale io apparivo come autore. Durante la canonica conferenza stampa di lancio dell’album, a me e agli altri autori erano stati riservati i posti in seconda fila perché nella prima dovevano stare i fotografi. L'artista che aveva inciso il disco è arrivato, ha visto tutti i fotografi schierati davanti, noi dietro e ha preteso di far avanzare noi e mettere in seconda fila i fotografi, dicendo: “Scusatemi ma loro sono il disco”. L’artista si chiama Placido Domingo.